29. Improbabili eroi

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Teorann non era nota per la sua vita mondana, Thomas lo sapeva bene. C'erano locali, feste di paese e discoteche, sì, ma pochi erano tanto coraggiosi da uscire di casa a una certa ora. Era come se ci fosse un coprifuoco non scritto a tenere gli abitanti chiusi nelle proprie abitazioni con il calare del buio. Da Cacciatore conosceva bene il motivo. Era un incantesimo che la sua famiglia teneva in vita da generazioni per proteggere la popolazione della città. Agiva sulla mente, quindi non funzionava per tutti allo stesso modo, ma in gran parte della gente infondeva un senso di repulsione e paura verso l'esterno una volta tramontato il sole.

Thomas odiava il fatto di dover chiedere aiuto a delle fate per rinnovare l'incantesimo tanto quanto odiava l'incantesimo stesso. Era giovane, non gli sarebbe dispiaciuto potersi divertire la sera con degli amici. Anche se di amici ne aveva soltanto uno, ed era un ragazzo troppo studioso, troppo per bene e troppo fidanzato con sua sorella.

Calciò un pezzo di cemento dissestato dalla via mentre osservava i cartelli stradali. Doveva cercare un fae che abitava a Teorann da secoli. Tempo prima aveva stretto un patto con la sua famiglia per stabilire una buona convivenza. Era semplice: loro lo lasciavano in pace e lui li aiutava con la magia. Tom non era mai andato di persona a chiedergli aiuto, ma conosceva la strada. L'aveva percorsa da bambino. Poteva quasi risentire la mano callosa del padre stretta alla sua mentre lo accompagnava da quello strano signore dai capelli argentati e la pelle dal colorito cinereo.

«St. Patrick Avenue. Dovrebbe essere qui» mormorò fra sé. Affondò le mani nelle tasche della giacca scamosciata mentre lasciava vagare lo sguardo sulla via silenziosa, con pochi lampioni dalla luce giallastra a disegnare i contorni degli edifici. Contò i numeri delle case, camminando lentamente. 112, 114, 116. Si fermò pochi passi dopo, davanti a un portone verde scuro con un batacchio d'ottone, una foggia inconsueta per la piccola cittadina. Era il numero 120. Quello che cercava.

Thomas sospirò. Spostava il peso da una gamba all'altra a metà della scalinata, lo sguardo fisso sulla porta chiusa. Non sarebbe dovuto andare là. Non avrebbe dovuto chiedere aiuto proprio alla fata a cui si rivolgevano i suoi genitori. Non era saggio, se voleva mantenere una copertura. Aveva già provato a parlare al padre della missione a cui Willow aveva partecipato senza il suo consenso, ma Mikhail si era rifiutato di ascoltare qualsiasi parola. Era troppo furioso, con la sorella, con le due fate e con lui. Anche la madre aveva sollevato un gran polverone con Anise, che evidentemente sapeva più di quanto volesse dire. In casa era scoppiato un putiferio degno di una soap opera e lui non ce l'aveva più fatta a stare a guardare.

Aveva preso uno zaino con pochi cambi d'abito e qualche arma e se ne era andato. Nessuno aveva notato la sua scomparsa. Non sapeva da chi andare, però, così si era ritrovato a girovagare a vuoto. Aveva pensato di fare una ronda, giusto per perdere tempo, ma poi si era ritrovato in quel quartiere della città e si era fermato. Si era ricordato di Lexi Plum.

Ed eccolo lì, in piedi e al freddo davanti al portone di un fae con cui non aveva mai parlato prima e con una repulsione ancora non del tutto sedata nei confronti della sua specie. È dura perdere le vecchie abitudini e i pregiudizi, quando ti sono stati inculcati a forza. Sospirò ancora, una nuvoletta bianca davanti alle sue labbra violacee, e strinse i pugni nelle tasche. Doveva annunciare la sua presenza? Si morse l'interno della guancia. Forse la fata sapeva già che lui era lì. Quelle creature erano strane. Erano anche particolarmente legate alla tradizione e alla buona educazione, però, quindi forse sarebbe stato meglio bussare.

Stava per allungare una mano indecisa verso il battente, quando la porta si aprì da sola. Thomas scese un gradino di scatto, quasi cadendo all'indietro nella fretta. Era stato un soffio di vento o un incantesimo a far spalancare quel portone pesante al suo semplice tocco?

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