22. In vino veritas

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Calum si stava divertendo. Era ovvio che si stesse divertendo. Insomma, qualche settimana prima a quel punto si sarebbe sicuramente trovato in mezzo al cerchio, fra i suoi simili, a cantare a squarciagola come se nient'altro importasse. Era noto per il suo comportamento sconsiderato e fuori luogo, ed era anche uno dei motivi per cui era stato diseredato. Quindi, si stava chiedendo il Seelie, perché se ne stava ancora rannicchiato su se stesso, un calice di petali rosati in mano e un cipiglio irritato sul volto? Calum di certo non ne aveva idea. O, almeno, stava evitando in tutti i modi di pensarci.

Sospirò in modo tragico, sebbene nessuno gli stesse prestando attenzione. I camerieri, con i loro vassoi argentei e le divise dal tessuto chiaro, lo squadrarono giusto per qualche istante, forse domandandosi, come lui stesso stava facendo, cosa ci facesse seduto a terra e circondato da una moltitudine di bicchieri floreali vuoti. Calum rispose alle occhiatacce con un gesto volgare, con cui invitò gentilmente i presenti a farsi gli affari propri.

Era stanco. Non stanco nel senso di affaticato, stanco moralmente. Era faticoso stare dietro agli sbalzi d'umore di Haley, alle sue crisi, ai suoi dubbi, e allo stesso tempo convivere con i propri. Ah, divertente. Lui non aveva dubbi, in realtà. Sapeva perfettamente ciò che voleva, dentro di sé, da anni. Il problema era che quel desiderio sarebbe rimasto per sempre insoddisfatto e lui non sarebbe mai stato altro che una semplice spalla. Già. Davvero esilarante. Forse gli serviva altro alcol.

Stava valutando l'opzione di scusarsi con uno dei camerieri in confronto alla possibilità di rubare un bicchiere a qualche invitato senza farsi notare, quando un'ombra gli coprì la vista del cerchio e della festa. Grugnì infastidito, alzando lo sguardo verso gli occhi rossastri di Rhys. «Che vuoi, sottospecie di renna?»

«Adorabile come sempre, Millet. Mi mancava la tua dolcezza» ghignò il canuto, lasciandosi cadere al fianco dell'altro sull'erba umida. Si ritrovò a dover spostare un paio di calici in modo da non sporcarsi di nettare fatato, un miscuglio di zucchero e altre sostanze fermentate che di certo gli si sarebbe appiccicato ai pantaloni per il resto della sua lunga vita semi immortale. «Guai in paradiso?»

Calum fece una smorfia, accartocciando nel pugno della mano un fiore vuoto. «Non ci sono mai stato, in paradiso. Ed è un concetto mortale, non fa per noi. Non fa per me.»

«Mi correggo, allora. Problemi con Haley? È strano che vi dividiate. Che ha fatto, questa volta?»

Scosse il capo. «Haley non ha nessuna colpa. Non si rende conto delle emozioni di chi lo circonda, ma non lo fa per cattiveria. Ha solo perso ogni traccia di empatia nel corso degli anni, per colpa di quei mostri che lo hanno cresciuto» lo difese il biondo. E il motivo per cui, sebbene fosse arrabbiato con il mondo intero, non riuscisse a prendersela con l'Unseelie, beh, sarebbe sempre rimasto un mistero. Sbuffò di fronte alla propria debolezza, per poi lasciar cadere la testa sulle ginocchia. Seguì con gli occhi i movimenti delle altre fate, il turbinio delle ali, circondate da auree luminose, e le figure del ballo. Si impose di alzarsi, ma ancora una volta fu inutile. Non ne era davvero in vena. «Cosa c'è di sbagliato in me?» mormorò quindi, più a se stesso che a qualcuno in particolare.

Rhys tuttavia gli rispose, più serio di quanto avrebbe mai pensato potesse essere. «Nulla, Cal. E non capisco perché continui a importi questa tortura. Non ti sei stancato? Sei una fata, non sei nato per avere preoccupazioni. Siamo spiriti liberi e noncuranti.»

«Oh, sì» rise. «Sono stanco. Ma certe volte, in certi casi, altre cose hanno la precedenza sulla nostra salute. Non mi aspetto che tu capisca. Non hai mai capito nulla di me, o di qualsiasi altro essere vivente. Pensi troppo ai tuoi vantaggi per curarti degli altri. Tu sei un fae a tutti gli effetti, devi esserne orgoglioso. Ma grazie per essere rimasto ad ascoltare le mie farneticazioni.»

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