Un cielo plumbeo

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Gellert Grindelwald non era un uomo come gli altri. Aveva un'intelligenza superiore alla norma, capacità decisamente invidiabili, un carisma tale che avrebbe potuto convincere i maghi e le streghe più ostinati a fare qualunque cosa e, cosa più importante, era un veggente. Queste qualità possono tornare molto utili quando si tratta di raccogliere seguaci.
L'esercito di Gindelwald cresceva e cresceva, e si faceva ogni giorno più invincibile. L'Inghilterra era praticamente in ginocchio, stremata dagli attacchi sempre più frequenti. Gli Auror non facevano in tempo a raggiungere un luogo che Grindelwald e i suoi seguaci avevano già iniziato un altro attacco. Non conoscevano tregua, non conoscevano pietà. Ogni mossa era studiata e calcolata nei minimi dettagli, ogni singolo colpo aveva una ragione, e ogni piano risultava infallibile.

Quel giorno il cielo era plumbeo, le nuvole oscuravano il cielo a tal punto che non si intravedeva più nemmeno uno sprazzo di azzurro. Sembrava che il mondo si fosse improvvisamente capovolto, che la terra e il cielo si fossero in qualche modo scambiati, fusi, fino a sparire completamente, facendo sprofondare tutto in un vortice indistinto. Gli alberi e i bassi cespugli erano avvizziti a causa del freddo pungente.
Ma nemmeno il gelo fermava l'esercito di Grindelwald, che avanzava compatto come un temibile e funesto stormo di corvi. Era come se una grande massa scura stesse ricoprendo poco a poco quel vasto territorio pianeggiante. In lontananza, appena visibili dietro la fitta nebbia, si potevano scorgere delle casette piene di Babbani ignari di tutto. Sembravano così piccole e fragili che qualcuno scoppiò a ridere vedendole. Grindelwald sorrise: gli era sempre piaciuta la sensazione di potere che precedeva una battaglia, la consapevolezza di avere tra le mani le vite di interi villaggi. Gli sarebbe bastato un cenno, e tutte quelle vite si sarebbero spente. Quel potere lo inebriava, lo faceva sentire invincibile.
E lo era.
Alzò la bacchetta di Sambuco verso il cielo, con fierezza, e tutti si fermarono di colpo, come pietrificati. Grindelwald era uno di quegli uomini a cui si obbediva e basta, senza se e senza ma. Mancavano solo pochi istanti. Improvvisamente la risata di Grindelwald riecheggiò nell'aria, agghiacciante, venata di piacere ma priva di allegria.
Si voltò senza abbassare la bacchetta e osservò il suo esercito. C'erano maghi e streghe di tutti i tipi: ricchi funzionari del Ministero, disperati senza nulla da perdere, Purosangue, Sanguemarcio, uomini e donne con i volti digrignati in espressioni spietate e impazienti. Erano assetati di sangue, per odio o per vendetta, e quasi tutti erano coperti di ripugnanti cicatrici. C'era perfino qualche bambino. Alcuni di loro erano così giovani da sembrare quasi fuori luogo, ma nel loro sguardo non c'era nulla di quell'innocenza infantile, quella luce gioiosa che illumina gli occhi dei bambini. Era come se fossero stati costretti a crescere troppo in fretta.
Tutti indossavano mantelli più neri della notte e mostravano con fierezza stretti collari in velluto ornati da un simbolo. Il simbolo dei Doni della Morte.
Alla destra di Grindelwald, in testa all'esercito, c'era un uomo con il volto coperto da un pesate cappuccio in groppa a un'enorme Creatura alata bianca e scheletrica. Poteva lontanamente essere paragonata a un drago, ma era molto meno aggraziata e aveva l'aria decisamente più brutale. I suoi occhi neri erano spenti, come se fosse morta. Tutto in quella figura sapeva di decadimento, la sola vista di quell'animale sembrava origine di un supplizio senza fine.
-Il momento è arrivato.- disse Grindelwald, sollevando leggermente un angolo della bocca. La sua voce era ferma, risoluta, così persuasiva che tutto quello che diceva sembrava una verità inconfutabile. -Presto marceremo su questo posto pieno zeppo di Babbani e li ridurremo all'obbedienza. Se siete qui oggi è perché avete scelto la strada giusta. Avete scelto di agire per il bene della Comunità Magica, perché i nostri simili abbiano ciò che meritano, e sarete ricompensati per questo. Il tempo di nascondersi è finito, finalmente i Babbani vedranno di cosa siamo capaci, impareranno a temerci come è giusto che sia!- delle grida di giubilo si levarono tra i seguaci di Grindelwald, facendosi sempre più forti. -Se oggi moriremo sarà per tutto il Mondo Magico! Per un futuro migliore, un futuro in cui nessuno dovrà più avere paura di mostrarsi per quello che è davvero!
-PER IL BENE SUPERIORE!- urlò qualcuno, e tutti lo imitarono, fieri di essere gli eroi che avrebbero riscritto la Storia. -Per il bene superiore, per il bene superiore!
Mentre tutte le voci si univano in quel coro agguerrito, la figura incappucciata alla destra di Grindelwald gli porse solennemente lo Specchio Nero, tenendolo alto come se fosse una reliquia preziosa. Grindelwald ne sfiorò il bordo, osservando i suoi occhi di ghiaccio che si riflettevano sulla superficie scura. Poi la sua vista si annebbiò, e sullo specchio si disegnarono i contorni di una figura, un'immagine così vivida che sembrava fosse proprio dietro di lui. Grindelwald la osservò senza scomporsi, limitandosi a stringere più forte lo Specchio nel palmo della mano e pregustando la sua vittoria.
-Ci siamo- disse, mostrando i denti bianchissimi. -Il Centro di Controllo non è sorvegliato. Thunder, sai cosa fare-.
Una strega si fece largo tra gli altri seguaci di Grindelwald, ordinatamente disposti in una formazione estremamente compatta, e si avvicinò al Signore Oscuro facendo un profondo inchino.
-Non ti deluderò, mio Signore- disse, poi sfoderò la bacchetta e si diresse verso il Centro di Controllo, con il lungo mantello nero che svolazzava al vento.

Thunder era una giovane donna che si era unita all'esercito di Grindelwald come volontaria. Non permetteva a nessuno di chiamarla con il suo vero nome, anche se in molti lo conoscevano. Diceva di non voler essere più la persona che era prima, di volersi lasciare il passato alle spalle. Quando si vuole cambiare vita, la cosa migliore è partire dal nome. Diligente e dedita alla causa, Thunder non aveva impiegato molto a conquistare il rispetto e la fiducia della maggior parte dei seguaci di Grindelwald, e in breve anche lo stesso Grindelwald aveva compreso le sue potenzialità, arrivando ad affidarle compiti di importanza cruciale. Aveva capito che Thunder, per quanto lo venerasse, nonostante tutta la stima che gli tributava, era molto più di una semplice tirapiedi.
La strega rise di gusto mentre entrava nell'edificio che si ergeva al centro della cittadina, agile e scattante nel suo abito nero. Non era preoccupata: non era la prima volta che uccideva delle persone.
Nel frattempo sull'esercito di Grindelwald era calato il silenzio più assoluto. La tensione era tangibile, e per un attimo anche il vento smise di soffiare, come in attesa. Poi un rumore assordante squarciò l'aria, ferendo i timpani dei seguaci di Grindelwald, che però non si lasciarono intimorire. Sfoderarono le bacchette nel medesimo istante, come parti di un'unica entità, e con un grido attraversarono la piana. Tutti gli abitanti della minuscola cittadina si erano raccolti attorno al Centro di Controllo, allarmati, così assorti nel tentativo di capire chi avesse attivato l'allarme da non accorgersi nemmeno delle figure scure che li avevano accerchiati, se non quando era ormai troppo tardi. Erano in trappola, non c'era scampo.
Grindelwald si fece avanti sotto gli sguardi terrorizzati dei cittadini. Sollevò la Bacchetta di Sambuco e lanciò un lampo rosso sangue verso il cielo. E poi la battaglia ebbe inizio. Con una furia selvaggia, i maghi e le streghe si scagliarono contro i Babbani disarmati, uccidendoli uno per uno. Tutti quelli che tentarono la fuga non trovarono altro che morte. Fu una vera strage. La Creatura bianca planò sul paesino, sfiorando le casette con le zampe artigliate. Spalancò le enormi fauci ed emise un verso basso e terrificante, che risuonò per tutta la città. Una rivoltante sostanza nera e appiccicosa gocciolava dai suoi occhi all'apparenza esanimi, corrodendo qualunque cosa su cui si posasse. Goccia dopo goccia, la città fu rasa al suolo.

Non c'erano più case. Non c'era più niente. Ogni forma di vita era stata eliminata da quel luogo in meno di un'ora, e adesso i corpi senza vita di centinaia di innocenti erano adagiati al suolo, accatastati l'uno sull'altro, l'orrore ancora impresso sui loro volti.
Dicono che l'ultima cosa che si vede in punto di morte rimanga impressa sulla retina. Era facile crederci, vedendo gli occhi spalancati di tutte quelle persone. C'era qualcosa di profondamente ingiusto nella loro morte. Nessuno meriterebbe una sorte così tragica, andarsene guardando i propri cari cadere uno a uno e non poter fare niente per aiutarli. Vedere il proprio mondo sgretolarsi in un solo istante per poi venirne risucchiati. Ma quella era una guerra.
E la guerra non è un fatto personale.

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