Capitolo venti

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Aveva un mal di testa martellante, anche se aveva già assunto un analgesico, forse più di uno a giudicare dalle capsule sparpagliate sul comodino, ma il mal di testa imperterrito prosperava.

Fortunatamente Dinah aveva dormito a casa sua, dato che Shawn aveva avuto un problema con la polizia e Siope era dovuto correre a recuperarlo prima che trascinassero suo fratello in galera. Dinah si era quindi fermata a pernottare dalla cubana, trovandola in uno stato comatoso quasi. Si era presa cura di lei tutta la notte e anche agli albori, quando la cubana era corsa a rimettere al bagno.

La polinesiana conosceva qualche vecchio trucco della nonna, rimedi naturali per debellare la nausea e distillare i postumi.

«Ecco a te.» Le servì una tazza fumante di qualche intruglio strano.

Camila grugnì mentre tentava di issarsi e sedersi sul letto. Ogni arto era indolenzito, ogni movimento le procurava una fitta lancinante alle tempie.

In fine riuscì ad appoggiare di contro la spalliera e afferrò la tazza. Osservò la brodaglia limacciosa, condita con pezzi di radici che non emanavano un buon odore.

Rimirò Dinah da sopra il bordo della tazza, guardinga. La polinesiana alzò gli occhi al cielo e la incoraggiò «Guarda che ti fa solo bene. Tappati il naso e bevi, lo faccio da anni.» Scrollò le spalle, rassicurandola.

Camila prese alla lettera il suggerimento, dal momento che il contenuto era davvero maleodorante. Ingollò tutto d'un sorso, ringraziando l'inattività delle papille gustative, ormai anestetizzate dall'alcol. Quando tutto il miscuglio le scottò lo stomaco, consegnò la tazza a Dinah, ma non senza cimentarsi in una smorfia disgustata.

«Non mi hai appena avvelenata, vero?» Si sincerò la cubana, osservando la polinesiana con sguardo torvo.

«Per favore! Non sono una vigliacca, non ti ucciderei mai con del veleno. Al massimo potrei strangolarti.» Si giustificò Dinah, con disinvoltura inquietante «Adesso ti ho solo stordita.» Gracchiò sinistramente, richiudendo la porta alle sue spalle.

Camila ridacchiò, pentendosi subito a causa dei colpi che subì la sua nuca.

Si distese sul letto, seppellendosi fra i cuscini e ammantandosi nelle coperte di lana. Chiuse le palpebre e sperò di assopirsi, ma i suoi desideri vennero sventati dal trillo deleterio del telefono che squarciò il silenzio immacolato e anche gli ultimi neuroni sopravvissuti.

Camila mugolò dolorante e tastò il comodino alla cieca ricerca dell'oggetto disturbante.

«Pronto?» Biascicò Camila, con voce impastata.

«Amigaa! ¿Como estas?» Squillò effervescente Normani, ledendo l'udito sensibile della cubana.

«Ti prego, Normani. Non urlare.» Scandì le parole lentamente, un po' perché il suo cervello impiegava più tempo per processarle, un po' perché risultasse più categorico.

«Uh, stai proprio male.» Constatò Normani, aspirando l'aria per enfatizzare la pena della cubana «Peggio per te, perché sto venendo da te.» Si riprese briosamente, costringendo Camila ad allontanare lo smartphone.

«A fare?» Domandò esausta la cubana.

«A prelevarti. Abbiamo un meeting con Lauren fra un'ora.» Comunicò placidamente, non tenendo di conto che invece per Camila quella era una acerrima notizia!

La cubana fece scattare la testa in aria, maledicendosi subito per quel gesto imprudente.

«Come, scusa?» Parve attonita.

«Già, scendi dal letto, chica.» E agganciò la telefonata, e subito dopo suonò il campanello, producendo un rumore che alle orecchie malconce della cubana parve una grancassa.

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