Capitolo ventotto

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La cubana si richiuse la porta alle spalle.

Stai delirando. È ovvio che tu stia delirando. Lo stai facendo già da un po', oggi. Si ammonì Camila, arginando la marea di pensieri.

Sfilò i tacchi e gli lasciò cadere accanto alla porta.

Perché Lauren dovrebbe essere lei?

Via anche giacca e borsa. Adesso era la volta di sciarpa e maglione.

Perché tenertelo nascosto?

Si lasciò sprofondare sul divano. Sospirò.

Quella sera era un po' alticcia, il gioco fra ombra e luce non aveva certo aiutato l'identificazione della donna, l'emozione poi, il batticuore, l'ansia... Insomma! Camila non avrebbe mai e poi mai ipotizzato che dietro la donna con la maschera si celasse la corvina.
Per due motivi principali soprattutto: (1) perché la regola del tutto-ciò-che-hai-davanti-agli-occhi-non-lo-vedi-mai era evidentemente subentrata in gioco; (2) e poi perché mai avrebbe pensato che una come Lauren si sarebbe potuta interessare a una come lei.

Forse stava correndo troppo, forse doveva solo rallentare battiti e pensieri, tornare a ragionare lucido. Ma ormai tutti i sistemi erano in tilt, l'unica cosa alla quale pensava era quel profumo, che aveva innescato quel dubbio.

Afferrò il telefono, che stazionava sul tavolino davanti a lei.

Poteva soltanto parlarne con Nomrma... No. No che non poteva.

Lentamente fissò lo schermo, dove il nome della collega svettava formalmente. Lo ri-bloccò. Il riflesso della sua espressione attonita incise il nero del display. Allontanò lo smartphone, poggiandolo nuovamente dove l'aveva trovato.

Non poteva chiamare Normani. Anche se avevano stretto un legame confidenziale, amichevole e sincero, Camila sapeva che -giustamente- la lealtà di Normani era ligia a Lauren. Se la cubana avesse incubato questa pulce nell'orecchio dell'amica, forse la corvina, per passaparola, lo avrebbe scoperto e sarebbe corsa ai ripari.

No. Inaspettatamente aveva ribaltato le carte in tavola. Ora era lei che aveva un asso nella manica.

Sempre meglio avere una buona mano, che un intero mazzo scarso. Rifletté, sorridendo tenuemente.

La cubana, allora, ancora in preda a convulsioni astratte, mosse un'altra pedina. Riafferrò il telefono, compose il numero e inoltrò la chiamata. La polinesiana rispose dopo cinque squilli. Camila non le diede nemmeno il tempo di esordire.

«Dinah, se sei con Normani, fai finta non sia io. Devi precipitarti a casa tipo... adesso.» Fu più un ordine quello di Camila che una richiesta d'aiuto.

Dinah, che non era avvezza ai raptus della cubana, teorizzò che fosse davvero qualcosa di cruciale, e così improvvisò una scusa con Siope -perché non era con Normani, ma con Siope-, e si defilò a rotta di collo verso casa della cubana.

Quando suonò il campanello, Camila stava tessendo una rete di ipotesi, snodi, alternative. Il suo filare venne interrotto dalla polinesiana che si precipitò all'interno pronta al peggio.

«Che è successo!?» Gridò, afferrando le guance della cubana, osservandole il colorito degli occhi, facendole l'ispezione delle tonsille.

«Dj.. Dj... smettila!» Tentava intanto di divincolarsi Camila, che solo al fine della visita medica riuscì a indietreggiare e ricomporsi.

«Non ho problemi di salute.» Sottolineò, notando come si arcuassero le sopracciglia dell'amica «Se non di salute mentale.» Mormorò fra se e se.

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