UNDERSTANDING

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D’un tratto mi ritrovai circondata dall’abbraccio di Alexandar.

Eravamo lì, riposati e ristorati dagli eventi che  si erano succeduti in quei ultimi giorni.

Eventi sconvolgenti che avevano letteralmente stravolto e capovolto nuovamente la mia vita.

Ero umana.

Ancora non riuscivo a capacitarmene.

E ancora non riuscivo a cogliere il nesso fra i miei bisogni mortali e la quotidianità a cui mi ero abituata in quegli ultimi 30 anni.

Eppure, nonostante i mille dubbi, le mille sensazioni nuove che mi travolgevano, bastava un semplice gesto da parte del vampiro anziano a cancellare le mie paure.

Un abbraccio.

“Elenoire… sei pronta?” mi domandò, posando la sua mano gelida sul mio mento, per sollevarmi il viso e fissarlo negli occhi.

“Pronta…?” domandai incerta, scrutando il suo viso pallido e marmoreo alla ricerca del significato preciso di quella domanda.

“Fra poco dovremmo trovarci con Maya. Ma prima… dobbiamo liberarci della sicurezza.” mi spiegò, alludendo ai soldati che dal giorno prima facevano la spola lungo i corridoi proprio al di fuori della nostra stanza,  per darsi il cambio e controllarci, sotto l’ordine del cane vampiro.

“Alex.. non posso esserti d’aiuto adesso… lo sai!” gli risposi, rammaricata per la mia nuova inutilità umana e consapevole che ora, nella mia nuova forma non potevo essere più d’aiuto per nessuno.

Anzi. Ero io che necessitavo d’aiuto adesso.

“Non ti preoccupare. Ho un piano!” iniziò lui, staccandosi dal nostro abbraccio e gesticolando nervosamente “Dovrai solo seguirmi e fare quello che ti dico!” continuò, girando su se stesso e picchiettandosi il mento con le dita.

Lo guardai senza dubbi né paure.

“Ok!” terminai, guardandolo mentre si dirigeva al pannello di controllo posto al fianco della porta specchiata scorrevole che ci divideva dal resto del laboratorio.

Le sue dita si mossero frenetiche sui tasti del pannello e solo quando il bip bip metallico iniziò a suonare, le porte specchiate scivolarono con un ronzio quasi sordo, nascondendosi nelle pareti della stanza e dandoci la vista della costruzione-laboratorio in cui ormai mi sentivo soffocare da giorni.

Non appena vedemmo i tre soldati voltarsi verso di noi, Alexandar fece uscire dalla fila ben esposta di denti, un ringhio cupo e lungo, come se si stesse preparando per la caccia.

Si accucciò veloce, con i muscoli tesi come corde di violino, pronto a scattare nel caso di reazioni avventate dei tre.

“Che diavolo!!” urlò uno dei soldati, puntandogli il fucile addosso, seguito dai due uomini che gli stavano alle spalle.

Alexandar rimase immobile per un secondo, in attesa.

Ma fu un attimo.

Un attimo così rapido che i miei nuovi occhi mortali non furono capaci di cogliere.

Un momento prima Alexandar era composto nella sua posizione curva, immobile come una statua greca, e un secondo dopo era accovacciato sulle ginocchia, affianco ai corpi immobili e morti dei tre soldati, che giacevano al suolo con le gole sgozzate.

Una pozza di sangue si era riversata sul pavimento lucido e perfetto, provocandomi un conato di vomito improvviso e sconosciuto fino a quel momento.

Dovetti velocemente coprirmi il volto con una mano, per bloccare il gusto acido e disgustoso che stava salendo lungo la mia gola.

“Andiamo!” mi sussurrò Alexandar, prendendomi la mano e trascinandomi nella sua folla corsa.

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