CAPITOLO IV
I giorni passarono velocemente; stare con mio cugino e mia sorella era davvero piacevole. Ero quasi felice con loro, a volte mi dimenticavo addirittura di tutti i problemi.
Quando mio cugino fece l’esame, andai con lui per un po’ di sostegno morale anche se probabilmente ero l’ultima persona che avrebbe dovuto dare supporto morale: i miei genitori la sera prima avevano deciso che io e mia sorella non saremmo partite subito con Marco, ma lo avremmo raggiunto un po’ dopo; io avrei aspettato solo tre giorni, cioè la fine della scuola, e mia sorella qualche settimana a causa di un esame all’università.
Mi sorprese il fatto che mi facessero andare in aereo da sola, insomma davvero si fidavano? Da loro proprio non me la sarei aspettata, ma ero contenta, non del fatto che si fidassero, siamo onesti, non me ne fregava un tubo; mi importava il fatto che sarei finalmente stata autonoma.
In fondo però mi sarebbero mancati … insomma, nessun ripensamento, non fraintendete, ma è solo che mi avevano aiutata a volte nei momenti di difficoltà e avevo molti ricordi con mia sorella, ma almeno lei sarebbe venuta con me. Tuttavia non volevo rinunciare all’opportunità di rifarmi una vita lontana da quelle persone di merda.
Finito l’esame, andammo subito in aeroporto, io a malincuore lo accompagnai. Avevo gli occhi lucidi, un po’ perché lo invidiavo immensamente, non volevo stare un giorno di più in quel manicomio chiamato “scuola”, ma un po’ anche perché senza di lui tutto si sarebbe incupito nuovamente.
Vedrai che insieme ce la faremo, resisti solo altri tre giorni e soprattutto promettimi che non lo farai più, la tua vita deve cambiare a partire da quello.” Mi disse nell’orecchio mentre ci salutavamo. Eravamo abbracciati da un po’, e la sua maglietta ormai era bagnata dalle mie lacrime. “Lo prometto.” Lo avevo detto, glielo avevo promesso e non potevo infrangere una promessa, una promessa è una promessa. CAZZO. Ce l’avrei fatta per lui.
Finimmo i saluti e poi lo lasciammo davanti al gate. Lo avrei raggiunto presto, si.
Furono i tre giorni più lunghi della mia vita. Partii al mattino dopo la fine della scuola, diretta a Milano per prendere l’aereo. Da Maranello, il paesino in cui abitavo, vicino a Bologna, impiegavamo due ore per arrivare all’aeroporto di Milano. Vennero con noi anche i miei nonni e mia zia. Cazzo mica stavo partendo per la guerra, anzi, stavo andando in pace.
Scesi dalla macchina mi feci aiutare da mio padre con le due enormi e pesantissime valigie. Le avevo riempite con tutto l’armadio e in più alcune cose a cui ero legata o che comunque mi servivano. Sapevo che là avrei comprato un oceano di vestiti, faccio sempre così quando vado in altre città … okay … ero malata.
La mia canottiera azzurra lasciava poco all’immaginazione e attirava vari sguardi, ma il caldo era soffocante perfino dentro l’aeroporto. Forse non era una buona idea partire per un posto così caldo in giungo … mmm … forse avrei dovuto valutare anche questo aspetto … ma in fondo me ne fregava il giusto.
Dopo aver fatto alcuni controlli, ci sedemmo fuori dal gate, il mio ero il dodici, il giorno in cui ero nata. Entrata nel gate non sarei più potuta tornare indietro e specialmente ero sola. Autonoma.
Mia madre iniziò a fare le solite raccomandazioni, ma io, che di solito alzavo gli occhi al cielo e sbuffavo, finendo con il litigare, quella volta le prestai attenzione per farla felice. Mi sarebbe mancata anche lei e le sue stupide prediche. Quando finì il discorso mi annunciò e triste allo stesso tempo che avevano chiamato la nuova scuola e anche quella vecchia. Finalmente non avrei più frequentato le lezioni nel manicomio.
Parlammo fuori dal gate per due ore buone e poi chiamarono il mio volo; avrebbero imbarcato tra quindici minuti.
Salutai tutti: non ce n’era uno che non piangesse e a dire il vero, anche io stavo piangendo inconsciamente.
Decisi di entrare nel gate, lasciando dietro quei visi tristi e piangenti. Era il mio momento di essere felice.
Dopo il controllo bagagli entrai nel duty free. Ovviamente non potei non comprare niente. Ero già stata in aereo parecchie volte, ai miei genitori piaceva viaggiare e per fortuna avevamo i soldi per farlo. Andavo in aereo da quando ero piccola, e tutte le volte desideravo prendere qualsiasi cosa mi capitasse sotto mano: finalmente lo potevo fare. Presi lo stesso profumo che già avevo, non sapevo perché, in fondo sarei dovuta cambiare, ma volevo rimanere la stessa nelle piccole cose. Entrai in svariati negozi di vestiti; presi due camicie, un maglioncino leggero (dopotutto stavo andando in Australia non in Alaska) e una canottiera.
Finiti i miei acquisti, mi sedetti e aspettai che imbarcassero la prima classe. Per fortuna i miei genitori e mio zio avevano deciso di essere buoni e di farmi passare quasi ventiquattro ore in un posto comodo.
Continuai a pensare al fatto del profumo … può essere una cosa banale, ma in fondo era anche quel quello che mi identificavo, quello era il MIO odore e NESSUNO avrebbe potuto averlo oltre a me. Mi piaceva l’odore delle persone, ognuno ne aveva uno diverso. Certo io volevo cambiare vita, ma io volevo rimanere la stessa, non volevo cambiare, non sarei stata me stessa. Forse non sapevo esattamente chi ero, non avevo mai avuto l’opportunità di tirare fuori la vera me, ma ero sicura che a Sidney ce l’avrei fatta. Era per questo che anche le piccole cose per me erano importanti.Dopo aver riflettuto mi alzai e andai a comprare altri due flaconi di quel dolcissimo profumo allo zucchero filato che io tanto amavo. Volevo avere lo stesso odore, punto e basta.
Ero completamente matta.
Finalmente chiamarono il mio volo e entrai in quell’enorme Boing 747. La prima classe era stupenda. Avevo scelto un posto vicino al finestrino.
Quando decollammo ero emozionata e spaventata allo stesso tempo. Vedevo la mia piccola città rimpicciolirsi sempre di più, tutti i ricordi svanire, ora non avrebbero più potuto fare male. Chiusi gli occhi e mi immersi nei miei sogni.
Non dormii molto durante il volo, più che altro guardai qualche film e ascoltai la musica. Era bellissimo stare con le cuffie e guardare quel meraviglioso paesaggio che passava dalle case a un oceano immenso.Passate le ventiquattro ore, iniziai a vedere Sidney avvicinarsi sempre di più. Dopo poco il comandante annunciò il nostro arrivo a destinazione.
L’aereo dopo aver fatto alcune virate non molto piacevoli, atterrò sulla pista. Eravamo arrivati. Scesi dall’aereo e respirai per la prima volta in vita mia, la calda e secca aria australiana.
Uscii velocemente dall’aeroporto, ovviamente dopo ottanta mila controlli. Presi un taxy e gli mostrai la cartina, dicendogli che doveva portarmi all’albergo. Il tipo sembrò aver capito, mi ero spiegata bene; in fondo me la cavavo con l’inglese, mi è sempre piaciuto.
Dopo venti minuti di viaggio arrivammo nella città. Non eravamo nel centro, ma eravamo a Sidney.A un certo punto il tassista si fermò e blaterò qualcosa il dialetto.
“Ehm i don’t understeand.”
Con molta fretta mi spiegò che in pratica sua figlia stava male e che quindi mi doveva lasciare subito per andare in ospedale da lei. Fanculo. Ci mancava solo il tassista esaurito.
Scesi dalla macchina, non potendo fare altrimenti, e iniziai a camminare, cercando di capirci qualcosa della cartina, era un’impresa impossibile, mi sentivo Tom Cruise.
Girai l’angolo borbottando e tirando accidenti alla cartina. Proprio appena girai l’angolo andai a sbattere contro qualcosa e ... “Ops!”BUONASERA SIGNORE! Ho aggiornato anche se un pò tardi.
Spero che la storia vi stia piacendo; adesso entriamo nel vivo della storia visto che Sara incontra un altro personaggio davvero molto importante ... chi sarà mai? AHAHAH
Alla prossima
-Gio
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Lost in the ocean || Luke Hemmings
FanfictionSara è una ragazza timida e impacciata, perseguitata dalle sventure della sua vita. A soli quindici anni si trasferisce da suo cugino in Australia per cambiare vita, stanca di come tutti la trattano. Lì incontrerà Maria, la sua futura migliore amica...