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Scusate se vi ho fatto aspettare più del solito per questo capitolo, ma credetemi se vi dico che è stato il capitolo più difficile da scrivere.
Vi anticipo che, se non ricordate, la storia che avete seguito fino ad ora è il racconto che viene narrato in prima persona da Leona, sotto analisi dalla sua psicologa Diana.
Finalmente siamo giunti al termine del suo racconto e ci accingiamo alla vita del presente, quindi.. preparatevi!
La storia inizia con un piccolo salto temporale al presente, quindi non panicate!



"Leona".
Silenzio.
"Leo, te la senti di continuare il tuo racconto? Siamo alla fine ormai".
La ragazza, visibilmente turbata, sorseggia un po' d'acqua. Successivamente posa il bicchiere sul tavolo di fronte a lei e sospira annuendo.
"Già, siamo alla fine".
Silenzio.
Di nuovo.
"Non mi sembri molto convinta. Se ti va, possiamo concludere nel pomeriggio".
Propone Diana provando a venire incontro al visibile turbamento della sua amica.
"No. Sono passati sette anni ormai. È roba vecchia. Posso parlarne tranquillamente".
Leona sorseggia nuovamente un altro po' d'acqua, poi si sistema in maniera più comoda sulla poltrona e si prepara psicologicamente a raccontare la fine della sua lunghissima storia.







Stranamente, quel Sabato sera Giuseppe sapeva esattamente l'orario in cui sarebbe venuto, riuscendo così ad avvisarmi con largo anticipo.
Mi ero abituata ad aspettarlo senza sapere se alla fine sarebbe venuto oppure no, perciò quella sera fui felice di non dover avere addosso l'ansia continua dovuta alla possibilità che non sarebbe venuto.
Erano passati due mesi ed una settimana dal nostro primo bacio.
Dopo aver trascorso in una casa sperduta momenti magici ed indimenticabili con lui che custodirò per sempre nel mio cuore, mi ritrovai a dover tornare alla strana e nuova vita che mi stava regalando.
 
Mentre lo aspettavo controllando circa ogni dieci secondi l'orologio appeso al muro con impazienza, mi soffermai ad osservare casa mia: era spoglia da ogni tipo di addobbo natalizio, nonostante fossimo ormai alle porte delle festività natalizie.

Ho sempre odiato il Natale. Le famiglie felici spendono le vacanze natalizie insieme, impacchettando per poi scartare regali allegramente, sotto le mille luci dell'albero di Natale, comprando e preparando dolci buonissimi. Io non ho mai avuto una famiglia vera e propria con la quale festeggiare il Natale, e quella maledetta festa sembrava volesse sbattermi in faccia il fatto che non avessi nessuna famiglia, anno dopo anno.
Perciò odiavo il Natale con tutto il mio cuore e non lo avrei mai festeggiato.

Con quattro minuti di ritardo, finalmente Giuseppe bussò alla porta. Mi alzai dal divano e frettolosamente corsi ad aprigli.
"Heeeeeei".
Gli urlai mentre aprii la porta per salutarlo.
Ma lui era serio. Aveva delle profonde occhiaie e mi diede l'impressione di non dormire da giorni.
"Tutto ok?".
Gi chiesi osservandolo meglio. Giuseppe non mosse un muscolo. Aveva le mani in tasca e, notando che lo fissavo con insistenza, abbassò lo sguardo, fissandosi le scarpe. Gli misi una mano sul braccio ed iniziai ad accarezzarglielo, provando a consolarlo da dei problemi che ancora non conoscevo. Lui continuava a restare immobile e zitto.
"Stai iniziando a farmi preoccupare".
Gli dissi non capendo cosa stesse succedendo.
Finalmente si mosse. Mi guardò negli occhi per una frazione di secondo, per poi tornare a guardare verso il basso.
"Posso entrare?".
"E me lo chiedi?".
Mi spostai per permettergli di entrare mentre gli feci cenno di accomodarsi. Giuseppe, facendo attenzione a non sfiorarmi nemmeno per sbaglio, entrò e chiuse la porta alle sue spalle.
Non ero stupida. Qualcosa non stava andando. E lui non si premurava neppure di nasconderlo.
"Parla".
Gli dissi iniziando ad essere tremendamente preoccupata.
"Dobbiamo parlare".
"Avresti potuto iniziare la conversazione con un saluto, ad esempio. Invece vai dritto subito al punto. Capisco".
Finalmente tornò a guardarmi, colpendomi in pieno col suo sguardo cupo e, al solito, penetrante. Conoscevo Giuseppe abbastanza bene da comprendere che stava palesemente male. Il labbro inferiore tremolante mi diede l'impressione che, se avesse ceduto alle proprie forti emozioni, avrebbe potuto iniziare a piangere.
Avrei voluto abbracciarlo, consolarlo, ma mi frenai pensando ad un suo possibile allontanamento dato il suo atteggiamento distaccato nei miei confronti. Il che, pensai, mi spaventava ancora di più.
"Beh, dunque, parla".
Lo esortai di nuovo mentre speravo che iniziasse a parlare per rompere quel silenzio che stava iniziando ad infastidirmi.
"Leona..".
Sentire Giuseppe pronunciare il mio nome con un'inusuale voce roca e con un tono rassegnato mi provocò un'allertante forma di paura.
"Sediamoci".
Posizionò una sedia di fronte all'altra e, dopo aver preso posto, mi invitò con la mano a sedermi di fronte a lui. Rifiutai con lo sguardo ed incrociai le braccia, aspettando che si decidesse a parlare e la smettesse di tergiversare.
"È un po' complicato da spiegare. Nonostante ciò, desidererei che ti sforzassi di comprendere bene la situazione, senza giungere a conclusioni affrettate".
Accavallò le gambe e passò una mano sulla fronte aggrottata. Poi sospirò e si decise a parlare.
"C'è una certa situazione che sta andando avanti da diversi anni. Sai che sono sempre stato un appassionato del mondo della politica, e non soltanto perché sono un professore di diritto privato".
Accennò un mezzo sorriso che morì immediatamente.
"Ho sempre cercato di essere il più aggiornato possibile sulla politica, sulle varie nuove proposte, schierandomi sempre dalla parte del giusto. Ho sempre celatamente dentro me sperato di poter diventare qualcuno di importante all'interno del mondo della politica. Qualcuno che potesse stare realmente dalla parte del popolo, ascoltandolo ed affiancandolo in ogni momento di necessità. Vedi, per farla breve, ultimamente è venuta a crearsi la possibilità di far diventare questo sogno realtà. Ci sto lavorando notte e giorno incessantemente da tantissimo tempo e finalmente, proprio mentre eravamo insieme, si è aperta una possibilità: ho ricevuto una chiamata in cui mi è stato chiesto apertamente se volessi iniziare ad intraprendere una nuova carriera da politico.. ed io ho risposto di sì".
Sgranai gli occhi. Dunque il motivo per cui siamo dovuti tornare con tanta fretta a Firenze era quello.
"E' fantastico! Non mi avevi mai detto di questo tuo sogno nel cassetto, ma sono comunque felicissima per te!".
Mentre pronunciavo quelle parole mi illudevo del fatto che fosse tutto ok. Ma in cuor mio sapevo che c'era ancora qualcosa che non mi stava dicendo, si capiva dal suo sguardo cupo.
Silenzio.
Iniziai a sorridere nervosamente aspettando che mi desse il colpo di grazia.
"Leona, non c'è nulla di fantastico in tutto ciò perché questo vuol dire che non possiamo più frequentarci. Ho grandi progetti per il mio futuro e se tutto va come ho previsto, riuscirò a realizzare grandi cose. Se questa cosa tra me e te saltasse fuori, rischierebbe di disintegrare la mia reputazione e mandare in fumo tutto quello per cui ho lavorato così duramente. Spero tu comprenda che mi trovo di fronte ad un bivio".

Seguì un minuto di silenzio, disturbato da miei leggeri singhiozzi che stavo trattenendo con tutta me stessa. Riuscii a calmarmi ed a regolarizzare il mio respiro, smettendo di singhiozzare.
"Temo di non aver capito bene. Fino a qualche giorno fa non solo hai detto di starti innamorando di me, ma abbiamo fatto l'amore per tutta la notte.. ed adesso mi stai lasciando così dal nulla?".
Dissi tutto d'un fiato.
"Non so, avevi bisogno di un preavviso?".
Rispose Giuseppe con superbia. Il suo labbro inferiore smise di tremare, il suo sguardo divenne sicuro ed audace. Infine prese coraggio e gonfiò leggermente il petto, probabilmente con l'intento di voler dimostrare superiorità nell'affrontare un argomento così delicato.
Chissà se invece fu solo una maschera per non mostrarmi che, invece, stava malissimo anche lui.
Prima che la mia mente entrasse in uno stato di blackout, provai a ragionare ed a collegare alcuni pezzi del puzzle che risultavano mancanti, ignorando il suo comportamento.
"Non hai mai partecipato a interminabili riunioni con i colleghi, né tanto meno dovevi tornare a casa le Domeniche mattine dopo esserti fermato da me tutta la notte. Stavi lavorando a questo progetto, giusto? Perché non me lo hai mai detto? Non ti avrei ostacolato.. anzi, ti avrei supportato sempre".
Una vecchia, ma familiare sensazione iniziò a serpeggiare dentro me, partendo dai piedi fino ad arrivare alla mia testa. Sentii la pelle d'oca, subito dopo il mio respirò iniziò ad essere corto.
Giuseppe rimase in silenzio, mantenendo quella posa fiera. Sembrava deciso.
"Mi stai abbandonando pure tu..".
Sussurrai a me stessa senza che lui potesse sentirmi.

Asciugai il sudore delle mani sulla felpa ed iniziai a strofinarle tra loro pensando a cosa potessi fare per non farmi abbandonare anche da lui. Non sarei stata pronta ad affrontare quella situazione. Avevo bisogno di lui.
"Ti prego. Questa situazione non ha senso. Rifletti un attimo: stiamo bene insieme".
Provai a mantenere la calma nonostante sentissi l'ansia crescere dentro me: mi obbligai a combatterla per restare lucida.
"Noi due ci.. amiamo. Io ti amo. Tu.. non me lo hai mai detto, ma.. so per certo che anche tu mi ami".
Giuseppe tornò a guardare le sue scarpe, strofinandosi il mento con una mano, mentre lasciò l'altra tamburellare sulla sua gamba: l'impercettibile rumore che provocava iniziò a divorarmi il cervello, mettendo a dura prova la mia già scadente resistenza alla crisi di panico.
"Se hai paura che qualcuno possa scoprirci, staremo ancora più attenti, se necessario ci vedremo di meno, smetteremo di scambiare messaggi. Faremo tutto ciò che serve per farti stare tranquillo".
"Leona, i nostri sentimenti non cambieranno nulla. Non posso rischiare. Non insistere, per favore".
"Giuseppe, ti prego. Tu non capisci..".
Istintivamente portai le dita in bocca ed inizia a mordicchiarle.
La speranza che lui potesse rimangiarsi tutto ciò che mi aveva detto fino ad ora mi tenne aggrappata ad un filo sottilissimo di speranza che mi permise di non essere divorata dalle fauci improvvise e violente delle mie abituali crisi di panico.
"Non posso vivere senza te".
Inaspettatamente sorpreso di sentire quelle mie ultime parole, sorrise come per prendermi in giro. Forse ritenne esagerata una mia simile affermazione.
Non badai alla sua reazione. Non avevo paura di sembrare sciocca ai suoi occhi.
"E' la verità".
Giuseppe sorrise.
"Sei sempre stata brava a scaraventarmi addosso frasi forti con l'intento di mandare in pappa il mio cervello, come quando ti sei dichiarata quella volta durante l'intervista, dicendomi cose tipo "penso di essermi innamorata di lei", oppure " mi baci!". Stavolta non servirà a nulla, Leona. Mi dispiace".
Il ricordo di quel lontano momento prese forma nella mia mente, ricordandomi un Giuseppe totalmente diverso da quello che mi ritrovavo di fronte in quel momento.
Mai nella mia vita avrei immaginato di supplicare qualcuno in quel modo. Mi sentivo fragile, vulnerabile. Ma avevo seriamente bisogno che lui restasse con me.
"Il mio unico intento è quello di farti capire che possiamo continuare a stare insieme, nonostante la tua preoccupazione".
"Leona, per favore. Sei una ragazza intelligente. Ti serve solo del tempo per metabolizzare il tutto".
"No".
Allo stremo delle mie forze nel trattenere la crisi, il pianto e anche qualche urla, mi avvicinai a lui e gli presi le mani. Anche le sue erano sudate.
Sospirai e lo guardai dritto negli occhi.
"Mi ami?".
Gli chiesi.
Il suo sguardo impassibile e severo mi terrorizzò.
"Mi ami?".
Gli porsi la stessa domanda con più foga.
"Leona, come ti ho già detto, io mi sto innamorando di te. Mi sono ritrovato di fronte ad un scelta, ed io, Leona, ho scelto la mia carriera lavorativa. Mi dispiace. Dovrai fartene una ragione".
Mollai la presa dalle sue mani e, inerme, lasciai ricadere le mie, che dondolarono per qualche secondo lungo i miei fianchi.
Inizia a singhiozzare, per poi scoppiare in un pianto convulso.
Mi sentivo una sciocca. Piangere disperatamente di fronte ad un uomo come Giuseppe che, probabilmente, imbarazzato e irremovibile di fronte a me, voleva semplicemente andarsene.

Giuseppe restò immobile a guardarmi piangere, senza avvicinarsi e senza provare a calmarmi anche solo con qualche parola di conforto. Aspettò pazientemente che il mio pianto si calmasse prima di ricominciare a parlare.
"Mi dispiace Leona. Non avrei mai voluto arrivare a questo punto. Sei una ragazza fantastica, vedrai che troverai un ragazzo migliore di me che potrà darti molto di più rispetto a quello che avrei potuto offrirti io".
Sorrisi nervosamente alzando gli occhi ormai totalmente rossi e gonfi al cielo nel sentire quella frase spacciata come una stupida ed amara consolazione.
D'un tratto si mosse e si avvicinò a me con l'intento di sfiorarmi i capelli. Sollevò la mano lentamente e, incerto se ciò che stava facendo fosse giusto oppure no, tentennò.
Quello che feci dopo fu totalmente istintivo ed inaspettato.
Schiaffeggiai via la mano che si era appena posata sulla mia testa perché quel contatto non più desiderato mi provocò un senso di disagio. Fu il mio corpo ad avvisarmi del fatto che lui era diventato un estraneo per me. Perché, come ormai sapevo benissimo, io non permettevo a nessun estraneo di toccarmi.

E allora era finita davvero. Perfino il mio corpo percepì la sua lontananza sia fisica che emotiva nei miei confronti.
"Vattene subito da casa mia".
Provò a controbattere, ma spinta da un improvviso attacco di adrenalina, iniziai a spingerlo verso la porta per cacciarlo via. Ovviamente non riuscii a muoverlo di un millimetro: ero troppo debole fisicamente.
Mi fermai, deglutii e presi fiato.
"Vattene, per favore. E non dire nulla. Hai già detto abbastanza".
Dopo diversi attimi di esitazione, se ne andò.


Ero sola, di nuovo.
Come sempre.
Nessuna mamma, nessun papà da cui andare a piangere.
E' sempre stato così.
Nessuno pronto a consolarmi, a dirmi che andrà tutto bene.
Lui mi aveva fatto assaporare una piccolissima fetta di una vita felice, serena, senza i miei numerosi problemi.
Ma adesso era tutto di nuovo come prima.
Ero sola.
Sola.
Come sempre.
Da sempre.

Anche se avessi voluto, non sarei mai riuscita a placare quella crisi che sentivo star arrivando ed ebbi paura.
"Respira. Sta calma Leo. Respira, ti prego".
Continuavo a ripetere quelle parole ad alta voce nella speranza che i miei battiti del cuore decelerassero, che il respiro si regolarizzasse, ma ebbi l'effetto contrario.
Le mie gambe non riuscirono più a sostenermi in piedi e finii in ginocchio.
Il mio respiro divenne irregolare e corto. Avevo bisogno di aria, ma quella non voleva saperne di entrarmi nei polmoni. Mi sentivo annegare.
Le mie mani, trovando finalmente i capelli, iniziarono a tirare forte, troppo forte. Volevo smettere, ma non ci riuscivo. Anzi, più volevo che tutto finisse il prima possibile, più tutto sembrava peggiorare.
Quelle maledette mani, stanche di strattonare i miei capelli, passarono alla prossima vittima: il mio volto. Iniziai a graffiarmi dappertutto, senza distinguere guance, occhi, orecchie, labbra, fronte. Ogni singolo centimetro della mia pelle non venne risparmiato.
Quando finalmente i graffi iniziarono a bruciare, il mio corpo, soddisfatto del lavoro compiuto, iniziò a placarsi.
Molto lentamente, tutto tornò a fermarsi.
Guardai le mie mani e le vidi un po' sporche di sangue. Osservando più attentamente, vidi all'interno delle mie unghie addirittura piccolissimi pezzi di pelle.
Scoppiai in lacrime.
Capii di aver toccato il fondo.
Non avevo mai avuto una crisi simile.
Mi facevo schifo. La mia vita faceva schifo e non meritava di essere vissuta.








"Leona, piccola mia, sta tranquilla. E' tutto passato".
Diana fu la prima cosa che vidi quando mi risvegliai. Mi guardai attorno e riconobbi il suo studio.
"Che è successo?".
Chiesi mettendo a fuoco la vista provando a ricordare: la crisi era stata talmente travolgente e potente da aver annebbiato parzialmente i miei ricordi.Tutto attorno a me vorticava e, nonostante fossi sdraiata su un letto, avevo la sensazione di perdere l'equilibrio.
"Non ricordi? Sei stata tu a chiamarmi ieri notte chiedendomi di venirti a prendere a casa tua".
Mi rispose Diana sistemando un cerotto sul mio viso con estrema delicatezza. La sua voce si interruppe un paio di volte mentre pronunciò quella frase, il che mi fece dedurre che era terribilmente preoccupata per me: del resto non dovevo avere un bell'aspetto.
Guardai le mie mani e notai con mia estrema gioia che erano perfettamente pulite.
"Riccardo, allora nulla di grave?".
Chiese Diana ad un uomo alle sua spalle che notai solo il quel momento.Probabilmente doveva essere un suo amico dottore.
"Nulla di grave".
Confermò lui. Poi si rivolse a me.
"Evita solo di parlare che la gola è ancora molto debole per lo sforzo. Per quanto riguarda i graffi, sta tranquilla. Fortunatamente non c'è nulla di profondo.Tra due giorni non avrai più nessun segno".
Dopodiché uscì dallo studio.
Diana chiuse la porta e si sedette accanto a me, stringendomi la mano.

Start living again - Giuseppe ConteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora