30 - Murray Clevon, il cammino

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Il paesaggio che circonda l'interstatale 40, a ovest di Flagstaff, è l'Arizona che pochi conoscono: distese di pini che si estendono per chilometri con un sottobosco erboso e relativamente arido. Murray Clevon stava camminando da alcuni minuti, stordito e indolenzito dall'incidente che l'aveva salvato dall'aggressione di quella dottoressa. Riuscì a sorridere del fatto che una cosa così negativa come l'avere un incidente, tra le tante conseguenze negative, ne avesse avuta anche una quasi provvidenziale. Sentiva di essere comunque sotto shock, il suo stato d'animo in quei pochi minuti era cambiato in modo radicale più volte, andando dalla paura per ciò che aveva appena visto e vissuto, fino alla sensazione di euforia dovuta allo scampato pericolo, passando per la rabbia per aver distrutto l'auto e la preoccupazione per il presente. Cercando di calmarsi e di riflettere più lucidamente, riordinando le idee, si sentì nuovamente solo. Pensava a tutto quello che lo aspettava, camminare fino a casa per quasi dieci miglia, sapendo che non sarebbero passati autobus e non avendo visto passare nemmeno una macchina da quando si era incamminato, dubitava che sarebbe passata qualche faccia conosciuta disposta a caricarlo.

Dopo aver camminato per almeno due ore sarebbe arrivato a casa e avrebbe dovuto chiamare il carro attrezzi, sperando di trovarne uno che fosse a lavoro e anche disposto a trainare la sua auto di Domenica. Ed in quel momento si rese conto del fatto che avrebbe dovuto dare spiegazioni: la dottoressa Hatwood, scaraventata fuori dal suo parabrezza, e probabilmente anche per l'altro uomo, il primo dei tre pazzi, quello investito dalla dottoressa. Nessuno avrebbe creduto alla sua storia. E c'era comunque l'omissione di soccorso. Ovviamente c'era quello nella Prius, per quanto fuori di sé era stato vittima di un tamponamento. Anche se non avesse chiamato il carro attrezzi, rifletté, sarebbero risaliti a lui, addirittura era possibile che lo rintracciassero ancor prima che fosse arrivato a casa. Si aspettava da un momento all'altro di sentire alle sue spalle le sirene della volante mandata a cercarlo; si sarebbe fermata, vedeva la scena come in un film, l'agente sarebbe sceso e gli avrebbe intimato di voltarsi e alzare le mani in alto; sarebbe stato arrestato e riportato a Flagstaff, o a Daltonfort, o forse sui due luoghi del crimine; una volta arrivato alla stazione di polizia l'avrebbero interrogato e avrebbero formalizzato le accuse: tentato omicidio, lesioni gravissime, omissione di soccorso, oltre ad una serie di infrazioni stradali. L'avrebbero messo dentro fino all'arrivo di un avvocato, come un vero criminale. E qui il senso di colpa lo fece fermare, piangendo mise le mani sulle ginocchia per reggersi. La sua vita era finita. Dopo una serie così scellerata di reati avrebbe perso il lavoro, e la faccia davanti ai suoi conoscenti. Le lacrime scorrevano copiose, e il pianto alleggerì subito la pressione che opprimeva Murray. Come una mano che passa sullo specchio appannato e riporta definizione e dettagli alle immagini che riflette, le sue lacrime parvero ridare lucidità ai suoi pensieri. Le tre persone coinvolte non erano morte, lui avrebbe spiegato, sarebbe stato chiarito tutto con calma e serenità. Il pianto si esaurì dopo poco, ma diede al vecchio Clevon, come lo chiamavano i suoi colleghi, nuova linfa vitale e riprese a camminare con la mente più leggera anche se ancora impegnata a cercare risposte alle domande che il suo lato scientifico aveva iniziato a porre. Era il suo rifugio, la sua isola di tranquillità, ragionare in modo matematico, analizzare gli elementi del problema e trovarne la soluzione. Ma in questo caso aveva pochissimi elementi utili e tantissime incognite, quindi si mise a riflettere con calma e metodo. Camminando in mezzo alla strada e tenendo la mente impegnata a formulare ipotesi più o meno verosimili a proposito di ciò che era successo alle tre persone che aveva visto trasformate in mostri aggressivi, percorse alcuni chilometri arrivando alla Well Creek camping station, una grande area per camper e caravan chiusa da Ottobre a Maggio. Sapeva di quel particolare perché qualcuno al liceo ne parlava in sala insegnanti, spiegando che la licenza era stata concessa per soli sei mesi all'anno. Sapeva però che il padrone aveva il suo bungalow-ufficio-casa proprio sull'ingresso dell'area, spesso lo vedeva seduto a guardare le auto di passaggio fuori dal suo parallelepipedo di metallo e materiale isolante. Era molto vecchio, ricordava. Arrivato proprio davanti all'ingresso vide la solita scena che aveva più volte distrattamente registrato nella memoria sotto la voce "immagini di sfondo della strada verso.casa". Il vecchio però stavolta non c'era. La sbarra era abbassata, come sempre prima di Maggio, e la porticina del bungalow-ufficio-casa era aperta. La sedia al solito posto, vuota. Sempre in sala insegnanti ricordava di aver sentito dire che nei mesi di chiusura il vecchio guadagnava facendo da rimessa per camper: i possessori di quei bestioni su ruote potevano parcheggiare in quell'area sorvegliata a cifre abbordabili, pagando ognuno qualche decina di dollari al mese. Probabilmente, pensò Murray, il vecchio era a fare un giro di controllo, una sorta di ronda per assicurarsi che tutto fosse in ordine, ma la sua attenzione fu attirata dalla sbarra che bloccava l'accesso all'area. Era macchiata, da lontano poteva sembrare uno schizzo di fango ma guardando meglio Murray capì che era chiaramente l'impronta insanguinata di una mano. Il battito cardiaco iniziò ad aumentare mentre si avvicinava: provava un senso di paura, di nuovo, insieme ad una sorta di stanchezza e noia, come quando dopo una giornataccia mentre si torna a casa si buca una gomma ed inizia a piovere. Man mano che camminava verso il bungalow-ufficio-casa del vecchio alla sinistra della sbarra, il suono dei suoi passi sulla ghiaia vennero prima affiancati e poi superati da un altro suono simile ma terribilmente diverso. Iniziò vedendo i piedi, poi le gambe, poi tutto il corpo, disteso dietro la parete corta del bungalow-ufficio-casa. Un uomo era steso a pancia in su, e chino su di lui un altro uomo stava producendo quell'orrendo rumore con la bocca, anzi con tutta la faccia sul collo di quello steso a terra. Lo stava mordendo? Mangiando? Altre domande si aggiungevano alla lista. Murray era fermo a guardare quella scena che ai suoi occhi risultava incomprensibile. Inconsciamente emise un suono, tra il sospiro e il lamento, e questo ebbe sull'uomo chino a banchettare sul collo dell'altro l'effetto di una sveglia: alzò rabbioso la testa piantando quegli occhi vuoti in quelli di Murray che riconobbe lo sguardo della dottoressa Hatwood. Ora era la paura a comandare Murray e questa decise di farlo correre verso destra, aggirando la sbarra, per raggiungere un mucchio di ferraglia accatastata poco oltre. Lì prese un tubo e lo impugnò come fosse una mazza da baseball. La persona che stava banchettando, ora Murray lo vedeva chiaramente, sul corpo del vecchio gestore dell'area attrezzata, aveva seguito il suo movimento e ora si stava alzando rabbiosa e ringhiante. Uomo contro bestia, pensò Murray, ricordando che da piccolo suo padre gli aveva spiegato come la ragione, l'intelligenza, l'astuzia proprie dell'essere umano gli hanno permesso di prevalere sulle bestie, più forti, aggressive e pericolose. Mentre quella bestia zoppicava verso di lui, decise di sfruttare proprio questa debolezza a suo vantaggio. Rimase fermo, piazzandosi come Joe Di Maggio in attesa che il lanciatore sparasse la sua palla veloce. Strinse tra le mani il pesante tubo di metallo e aspettò di avere a tiro quell'uomo stravolto da chissà quale malattia fisica e mentale. E al momento opportuno colpì, forte, lo swing fu perfetto, in pieno sulla rotula sinistra della bestia, che, perso il punto d'appoggio, senza un lamento cadde a terra. La forza impressa all'improvvisata mazza da baseball lo fece ruotare su sé stesso fino a fargli dare le spalle alla figura a terra; questa, come se nulla fosse, dopo qualche contorsione, riprese la sua marcia, ora trascinandosi con le mani, verso Murray, che intanto era indietreggiato di qualche passo. Cercando di controllare la paura, dopo essersi anche guardato intorno per accertarsi di non dover affrontare altre bestie, provò ad osservare meglio quella che gli stava lentamente venendo incontro. Il volto era estremamente pallido, coperto del sangue dell'uomo morto pochi metri più in là. Denti scoperti in un ghigno rabbioso, che scattavano ritmicamente. Era un uomo, probabilmente un ragazzo, vestito con una tuta da ginnastica di quelle alla moda indossate anche dagli allievi del "vecchio Clevon". Indietreggiando ancora, decise di provare a parlare a quel ragazzo, a ciò che era diventato.

- Ehi, mi senti? - provò a chiedere con voce quasi tremante.

La reazione fu immediata, il ragazzo ebbe una sorta di scatto che coinvolse tutto il corpo, evidentemente l'aveva sentito e la cosa lo aveva per così dire eccitato. Murray provò quindi a muoversi lentamente, cercando di non fare rumore e notò che il ragazzo strisciante lo seguiva comunque, ma registrava con maggiore ritardo i suoi spostamenti. Pensò che forse quella patina bianca che annebbiava come una cataratta gli occhi del ragazzo, e anche degli altri tre, oltre a rendere i loro sguardi assolutamente agghiaccianti, ne riduceva in parte la vista. Continuando l'osservazione del soggetto in questione, descrivendo un ampio cerchio a lenti passi laterali per mantenere una distanza di qualche metro, Murray si trovò vicino al corpo steso del vecchio, ormai immerso nel suo stesso sangue. Buona parte del collo di quel poveraccio era stata lacerata e forse mangiata, era sicuramente morto già da diversi minuti. Stava iniziando a formulare qualche risposta alle molte domande che erano gli si erano formate nella mente, ma non capiva come quel ragazzo, oltre che cannibale, fosse diventato immune al dolore, al punto da non emettere neanche un lamento quando gli aveva spezzato, sicuramente spezzato, l'articolazione del ginocchio sinistro. Osservandolo meglio notò anche che oltre al sangue che gli copriva mezza faccia, collo e buona parte della tuta, sulla caviglia destra c'era una macchia scura, sempre di sangue, ma ormai secco. Forse era una lacerazione, nulla di grave, ma qualcosa l'aveva ferito. Che fosse stato un morso di cane, magari rabbioso, ad averlo contagiato? Murray ricordava vagamente che la rabbia, nel suo stadio finale, portava ad estrema aggressività, dissociazione dalla realtà, perdita di equilibrio ed orientamento, tutti sintomi parzialmente riconducibili a quanto stava osservando. Quel morso poteva esserne la prova definitiva. Eppure non riusciva a convincersi, era troppo, era qualcosa di disumano, il cannibalismo, il comportamento da predatore, l'assoluta insensibilità al dolore, erano elementi che non potevano essere causati da una malattia, per quanto grave come poteva essere la rabbia. Murray, in quei due minuti di osservazione era arrivato molto vicino alla vera risposta alle sue domande: non la rabbia ma il prione di Stix, non il morso di in cane infetto ma quella di un altro uomo infetto.

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