Capitolo 30. Edoardo.

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“Cos'è che vuole fare? Ma è impazzito?”
Ginevra è seduta a letto che beve il tè che le ho appena comprato alle macchinette e per poco non si strozza quando le dò la notizia.
“Bè non è un'idea così assurda in effetti.”
“Venire a New York con te? E a fare cosa?”
“Bè...a stare con me.”
Mi guarda come se fossi pazzo e poi guarda il suo tè fumante.
“Vuoi che ti vada a prendere dei biscotti?”
“No.” mi risponde arrabbiata.
“Ma dai Ginny perchè sei arrabbiata adesso? E' una bella cosa invece. Io sono più tranquillo a sapere che non sono la da solo, credevo lo saresti stata anche tu.”
Continua a tenere gli occhi fissi sul bicchierino di carta che tiene tra le mani. Dà una mescolata al contenuto e poi chiude gli occhi. La osservo senza sapere bene cosa stia facendo ma quando riapre gli occhi mi accorgo che due lacrimoni si staccano dalle sue ciglia e finiscono sul lenzuolo bianco dell'ospedale.
Mi avvicino al suo viso e le accarezzo una guancia con un pollice poi le prendo una mano e gliela bacio.
I suoi ormoni sono piuttosto in subbuglio da due settimane a questa parte e capita spesso che scoppi a piangere senza motivo. Un giorno eravamo in un negozio ed è scoppiata a piangere disperata perché non trovava la taglia dei jeans che le piacevano. Ho dovuto trascinarla fuori dal negozio mentre tutti ci guardavano come se fossimo due alieni.
“Speravo di venirci io a vivere con te a New York.” mi dice con un sorriso amaro.
Le bacio i polpastrelli e mi soffermo un po' di più sulla punta del mignolo.
“Tu devi tornare a casa dai tuoi e devi continuare l'università.”
“Non ci torno a casa.” mi strappa via la sua mano e si incrocia le braccia in grembo mettendo il muso. Sospiro.
“Avete entrambi dei genitori che vi vogliono bene e che farebbero di tutto per voi e non vi rendete conto di quanto fortunati siete. Non so cosa darei io per sentirmi sgridare quando faccio una cazzata.”
Ginevra mi guarda e assume quell'espressione che odio: pena. Mi alzo dal letto e vado verso la finestra.
Ho sempre evitato di parlare dei miei genitori proprio per evitare gli sguardi pietosi che mi rivolgeva la gente. Non sopporto di essere guardato così, soprattutto da Ginevra e lei lo sa bene.
Fisso il parcheggio dell'ospedale che si trova sotto di noi. Un signore anziano aiuta sua moglie a scendere dall'auto e poi la aiuta a camminare fino all'ingresso zoppicando. Mi spunta un sorriso.
Sento due mani piccole e delicate che mi accarezzano la schiena e si fermano a metà della spina dorsale. Un bacio delicato sulla spalla mi fa venire i brividi e chiudere gli occhi.
“Torna a letto.”
“Non sono ammalata sto benissimo. E sono stanca di stare sdraiata in quel letto.” sbuffa Ginevra.
“E cosa vorresti fare?” resto girato a guardare fuori dalla finestra quindi non le vedo il viso, ma so che sta sorridendo.
“Un'idea ce l'avrei.”
Mi giro finalmente a guardarla e a differenza del sorriso malizioso che credevo di trovarmi sul viso ha un'aria da bambina.
“Mi racconti una fiaba?”
“Una cosa?!”
“Una fiaba. Daiii ti prego.”
“Ma io non ne so neanche una.”
“E allora inventatela. Dovrai farci l'abitudine sai?” dice indicandosi la pancia e sorridendo.
“E va bene. Ma non ridere mentre te la racconto. Non mi sono mai inventato una fiaba e non credo di essere capace.”
“Non rido promesso.” si rimette a letto impaziente di sentire la fiaba come una bambina di cinque anni e inizio a chiedermi se la mia bambina avrà la stessa espressione.

Nove mesi per due.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora