Un equivoco

29 4 0
                                    


Le navate e la musica dell'organo, la luce che, filtrata attraverso le vetrate colorate, rifletteva di mille colori vividi sui volti dei presenti. La Fisher entrò e scambiò due chiacchiere con padre Matthew, forse frasi di circostanza. Ines era seduta, le sue scarpe di vernice picchiettavano nervosamente sulla panca. I ragazzi di seconda e terza categoria erano quasi tutti presenti. Mia prese posto vicino a lei. La ragazzina iniziò a parlare e a parlare ancora, passando da un argomento all'altro e ubriacandola di discorsi privi di attrattiva. Spense il cervello. Vide Larry nel coro, insieme a Gaia, a Beth e a un paio di suore. Rebecca era stata magnanima con Larry e gli altri.
I fattacci di quel venerdì sera finito nell'alcool erano stati celati a Wagner, forse perché era un fatto scomodo anche per l'arguta psicologa. Se l'era vista da sola, mettendo tutto a tacere e dando punizioni in sordina, punizioni talmente lievi da non fare neanche notizia tra i piani alti del Nun Ester. Ines si era sentita in colpa per averli lasciati in quelle cucine. Avrebbe dovuto chieder loro scusa, ma la realtà è che forse avrebbe dovuto chiedere scusa a chi aveva portato via da quelle cucine. Realizzò che era vero: le parole di sua madre, le continue delusioni, la sensazione di non essere mai adeguata... lei distruggeva ogni cosa su cui metteva le mani. Guardò di nuovo Larry alle prese con i solfeggi. Avrebbe dovuto ringraziarla per averlo lasciato lì a terra, avrebbe dovuto ringraziarla per non essersi invaghita di lui, per non essere il suo beniamino, per non essere il ragazzo da salvare ad ogni costo. Perché quel ragazzo adesso era in un vero pasticcio. Udì dello scompiglio, qualcuno che stava entrando. Si voltò verso la porta d'ingresso, sperando che Ian fosse tra quel pugno di pazienti che mancavano all'appello in chiesa. Entrò Timothy Morgan, un ragazzino storpio della seconda categoria, con i capelli a caschetto scuri e i pantaloncini color cachi tenuti su da ampie bretelle elastiche. Entrò Sam Gray, oscillando col bacino e mostrando sul volto una patina di soddisfazione e di rivalsa per aver superato il compleanno di Rebecca nel migliore dei modi. In quella patina, però, si leggeva un accoramento difficile da dissimulare per ciò che era successo a Ian. Entrò Donald e infine Annabelle e Cory Branxon, il ragazzone autistico che aveva cercato di salvare Ines dalle grinfie di Miranda Foster, la sera del White party. Lui, però, non c'era.
Ashton aveva preso posto dall'altro lato della navata. Sapeva che la sedia vuota vicino alla propria era destinata a Ian. Non si scompose per l'assenza del ragazzo e lanciò un'occhiata rapida e irritata a Ines.
Iniziarono i canti di chiesa, Margot che finalmente sfoggiava le sue doti da pianista e accompagnava con il piano le voci dei coristi, sotto gli occhi fieri delle suore indiane e polacche che, al suo fianco battevano le mani per enfatizzare il ritmo e rendere più corposa la musica. Mia che si rigirava il libro di preghiere tra le mani e lo sfogliava goffamente, il brusio dei chiacchiericci di Gaia e Gwen, interrotto a intervalli regolari dalle urla di Cory o dalle bizze di Annabelle. Le parole di padre Matthew entravano da un orecchio come rumori inutili, e uscivano repentine dall'altro orecchio senza essere metabolizzate. Al Nun Ester la messa era per tutti: ninfomani come Deb Roberts, omosessuali come Sam Gray, peccatori di omicidio come Ryan Duval, o di prostituzione come Maya Fadiga. Si rese conto che quella era la chiesa in cui credeva, una chiesa che nel mondo reale non esisteva. Forse si trovava in un posto migliore del mondo esterno, un posto dove non era mai troppo tardi, dove non si era mai abbastanza reietti da essere condannati. Ma il posto paradisiaco a Clover si limitava alla chiesa di Matthew, mentre a pochi metri da lì, nella stanza ottantaquattro dell'ala Ovest, c'era l'inferno terreno. Non riuscì stare calma. Ian non era al sicuro. Deglutì, le mani sudate affondavano sullo schienale ligneo scheggiato della sedia davanti alla sua. Si guardò ancora intorno. Non poteva restare lì, senza far niente a guardare un pulpito e ad ascoltare una stupida cantilena. Avrebbe tolto Ian dai pasticci, con o senza l'appoggio di Ashton.
Appoggiò in modo fraterno una mano sulla spalla di Mia:
«Ci vediamo più tardi, ok? Comportati bene».
Spostò delle sedie per passare, disturbando il momento di meditazione e, ovviamente dando nell'occhio. Aveva richiamato l'attenzione della Fisher, unica figura autoritaria presente alla funzione religiosa quel giorno. Era proprio di lei che aveva bisogno. Tirò un sospiro. Si avvicinò alla giovane donna.
«Ho bisogno di parlarle» bisbigliò umilmente.
«Certo» sorrise la psicologa e dalle enormi lenti si diramarono nitidamente piccole rughe di espressione alle estremità esterne degli occhi, le tipiche "zampe di gallina" di chi sorride. La accompagnò fuori, dando prima un'occhiata sintetica ma ampia all'ambiente circostante, empio di persone che oramai fingevano solamente di pregare, intente ad origliare la confabulazione delle due. Vide che Ashton era l'unico a non fingere di pregare, si era allarmato, e guardava verso di loro. Ines scostò rapidamente gli occhi da lui e ancor più rapidamente uscì, seguita da Becca, immaginando comunque di non correre il pericolo di essere seguita.
Rebecca iniziò a dirle che poteva darle del "tu", permesso che era già stato accordato, e a domandare di cosa si trattasse la questione che Ines doveva far presente.
«E' mio l'anello» disse d'un fiato, mortificata di aver costretto Becca ad abbandonare la chiesa.
La donna socchiuse le labbra in un espressione di commiserazione. Sapeva che la colpevolezza di Ian non sarebbe mutata o diminuita a seconda di chi fosse stato il possessore dell'anello e che non sarebbe dimezzata la punizione in base a un perdono della persona derubata.
«Non l'ha rubato. Lo avevo lasciato al lavatoio l'altro giorno. Non riesco mai a conservarmi i buoni per le lavatrici e...» sorrise umilmente e, impacciata, si grattò la fronte bassa. Lo sguardo chino era atto a eclissare la consapevolezza di aver mentito, consapevolezza, suo malgrado, inevitabilmente esibita sul suo volto.
«Dividiamo spazi comuni, in più Ian è il protetto del mio fidanzato. So che è contro le regole ma ho instaurato con lui un rapporto confidenziale e amichevole, forse sconveniente. Ci scambiamo libri e sono ricorsa al suo aiuto per sapermi rapportare al meglio con Mia, allo stesso modo, lui è ricorso al mio per trovare un punto d'incontro con Ashton, essendo divisi da situazioni sociali e familiari totalmente parallele. Così, quando ha trovato il mio anello posato sul pozzo, sapeva che era mio e credo lo abbia preso tramite un riflesso incondizionato, sicuro di non trovarsi privo di qualche imminente occasione per potermelo restituire».
Rebecca si fece sfuggire un "Oh, cavolo". Scosse la testa:
«Se sei convinta di questo, cambia tutto»
«Convintissima» incrementò la dose con l'ennesima bugia a fin di bene, incoraggiata dalle indubbie particolari attenzioni di Rebecca nei confronti di Ian «Me lo ha persino confessato. Saprai che, da inguaribile paladina della giustizia, ho cercato di liberarlo dalla gogna ideata da Wagner e quando nessuno ci ha sentiti, mi ha spiegato a bassa voce la verità. Non ho fatto nulla sul momento perché ero terrorizzata, ma non posso più tacere adesso. E oggi quando non ho visto Ian a messa... Spero solo non sia troppo tardi ».
Rebecca si passò una mano sulla bocca:
«Santo cielo... » chiuse gli occhi, rimproverando se stessa di indulgenza, recriminandosi di non aver ancora imparato, dopo anni, a capire quando Fredrick mentiva:
«Wagner mi ha detto che Ian aveva bisogno di un trattamento urgente questa mattina e che se ne sarebbe occupato lui personalmente. Quando si tratta della salute dei ragazzi, la funzione domenicale è sempre passata in secondo piano e credevo... Oh, lascia perdere! Penso che dovremmo andare al Nun Ester. Adesso».
Prese per un braccio Ines, sapendo che qualunque cosa si stesse consumando tra le mura dell'ala Ovest in quei minuti, non aveva niente di propriamente umano. Sentì la responsabilità di essere la sola altra figura autorevole in quel momento, oltre ad un uomo mentalmente instabile che giocava a fare il Dio, esercitando pratiche anti ortodosse su chi non poteva difendersi. Mentre correva sapeva bene che non sarebbero arrivate mai in tempo.

DisturbiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora