Ritorno all'ala Ovest

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Percepì una luce biancastra dalle palpebre ancora chiuse. Il rumore degli anelli delle tende che scorrevano a fatica sulla stecca di ferro arrugginita, le fece fare una smorfia di disgusto. Margot voleva godere del sole pallido di quella mattina, il primo da quando gli studenti erano arrivati lì. Era davanti alla finestra, vestita di chiaro con i capelli sciatti raccolti in una treccia. Si intonava con quell'ambiente arcaico. Ines si stirò e tentò di alzarsi dal letto matrimoniale che condivideva con la compagna.
«Buongiorno»
L'altra non rispose. Si diresse verso l'armadio, tirò fuori dei pantaloni in velluto blu e un maglione verde pistacchio. Ines la seguì con lo sguardo:
«Va tutto bene?».
La ragazza si stava vestendo, era imbronciata e continuava a non rispondere; poi alzò lo sguardo, la voce uscì quasi stridula:
«Tu staresti bene se la tua compagna di stanza se ne andasse alle feste e ti lasciasse sola in questa gabbia di matti?!»
Ines la guardò basita. Tentò comunque di scusarsi:
«Margot... ti ho chiesto più volte se volevi venire, mi avrebbe fatto piacere, io non so che dire, lo sai che...»
«Che? Che io sono una stupida secchiona vestita male e tu sei Ines Danver, così bella, così fantastica, così "in"! Certo che lo so! Lascia stare... tu non mi devi niente» si infilò gli occhiali da vista, si mordicchiò le labbra tremanti; stava per piangere.
Ines la guardò con commiserazione, si sentiva una stronza ora. Non osò andarle troppo vicino, ma cercò con gli occhi lo sguardo della ragazza chinando il capo. Margot era scossa. Le venne un dubbio:
«E' successo qualcosa mentre non c'ero?» volle sapere.
L'altra fece una smorfia, si strinse nelle spalle:
«Dovrebbe importartene qualcosa?». Prese lo zaino piccolo e cencioso, le passò vicino frettolosamente lasciando dietro di sé una scia odorante di rosa appassita. Ines tentò di fermarla, trattenendola per un lembo del maglione, ma la ragazza dai lunghi capelli rossi, le sfuggì come sabbia tra le dita di una mano.

Il brusio nella dispersiva sala della mensa, era la musica che l'accompagnava ogni mattina. Si guardò intorno. I "No Problem" parlavano e ridevano, i "Disturbia" mugolavano e facevano chiasso con le posate, solo la metà di loro sapeva utilizzare la voce e comporre frasi di senso logico. Solo la metà di loro, all'apparenza, sembrava normale. Sentì la sedia vicino alla sua strusciare sul pavimento freddo e sconnesso.
«Cazzo... non so per quale miracolo sono riuscito ad alzarmi stamattina» Ashton si stropicciò gli occhi velati di stanchezza e di alcool.
«Bugiardo. Non ci sei andato proprio a letto» disse sprezzante lei, prendendo un biscotto secco dal cesto di vimini. Lui abbassò la testa. Una bidella gli versò del latte caldo nella tazza.
«Se ci fossi andato, avrei rischiato di non presentarmi a lezione né stamattina, né oggi pomeriggio» ammise bisbigliando. Lei incalzò:
«Non mi è piaciuto»
«Cosa?»
«Il teatrino che hai fatto giù alla spiaggia stanotte. Quella canzone. Io a volte non so proprio...» si rese conto che stava alzando la voce, si stoppò non appena Lewis Northon, con aria severa, passò di lì. La ragazza abbassò lo sguardo, poi alzò gli occhi, li volse al tavolo dei "Disturbia", massiccio e infinitamente lungo. C'erano alcune sedie vuote, ma lei si soffermò su una. Era quella di Ian. Non se ne rese conto, ma probabilmente stava fissando quella seggiola da qualche minuto.
«Ehi, ma che guardi?» Ashton le agitò una mano davanti agli occhi. Lei tornò in sé.
«Stavi fissando un punto nel vuoto. Quei pazzi ti manderanno fuori di testa alla fine» disse serio il ragazzo.
Ines prese l'ultimo sorso di tè. Si legò frettolosamente i capelli in un chignon.
«Corro a lezione!»
«Non mi dai neanche un bacio?» la rimproverò lui, prendendola per un braccio
«No» tagliò corto, sprigionandosi dalla stretta.
Abbandonò la stanza affollata. Mancavano ancora venti minuti all'inizio della lezione.
Fece una corsa in camera sua. Aprì l'armadio vecchio che, come ogni volta, stridette. Ne trasse il maglione di Ian. Toccandolo ebbe un fremito; profumava di muschio e di mare. Era il profumo di lui. Lo portò con sé. Attraversò l'ala Est dirigendosi verso la parte opposta dell'edificio. Alcuni uomini della sicurezza, intenti a ridere e scolarsi del caffè allungato, fortunatamente non si accorsero di lei.
Si concentrò per ricordare dove fosse quella stanza. Arrivò al corridoio dalle mattonelle rosse; sentì dei lamenti, ma non conosceva la voce di quel ragazzo, alcuni pianti erano di donna. Passò davanti alle cinque stanze, sbirciò dalle porte semichiuse, fino alla quarta porta.
Quel volto maledettamente bello era coperto quasi del tutto da una maschera d'ossigeno. Ines sentì un rapido brivido sulle braccia e sul collo. Se fosse entrata, cosa gli avrebbe detto? Perché lui avrebbe dovuto far passare lei, un'estranea? Strusciò nervosamente i denti tra di loro, mentre rifletteva. Era solo per rendergli il giacchetto, non l'avrebbe cacciata via... non voleva far nulla di male. I "No Problem" e i "Disturbia" però erano nemici, erano diversi, erano intolleranti gli uni verso gli altri: avrebbe avvertito la sicurezza e l'avrebbe fatta mettere in punizione. Ma lei... non era sua nemica. Non voleva che lui la giudicasse come gli altri, lei non era come gli altri.
Varcò la soglia.
«Q- questo dovrebbe essere tuo» sorrise mostrando il maglione. Si sentì maggiormente stupida quando lui non le rispose. Lo sguardo grigiastro del ragazzo si muoveva repentino e stanco, osservando ogni lineamento del suo volto, e poi ogni curva del suo corpo ben formato. Ines avvampò. Si morse le labbra. Lui socchiuse gli occhi. Lei provò ad interpretare la domanda che lo sconosciuto avrebbe voluto farle:
«Non ti ricordi? Lo hai dimenticato nella sala comune» sorrise, senza alcuno sforzo. Guardò le braccia bucate dagli aghi delle flebo e le mani candide a penzoloni fuori dal letto.
«Non riesci a dir niente?» si incupì un istante «okay... », stava posando sulla poltrona il maglione, pronta ad andarsene.
Ian cercò di tirarsi su, affannato:
«Non ti dovevi disturbare» disse con tono serio, ma non cattivo.
«Nessun disturbo. I- io ho lezione adesso. Ci vediamo... »
Uscì dalla porta in fretta. I brividi ancora le vestivano le braccia. Chiuse gli occhi un istante, ma il viso di lui nella sua mente illuminava quel buio, poi li riaprì: lo squallore dell'ala Ovest la stava risucchiano.
«Che stupida! Non dovrei essere qui...» enunciò piano.
Le guardie iniziavano a girare, e anche i medici e le infermiere con i pazienti a passeggio. Iniziò a sudare freddo: o riusciva a mimetizzarsi tra i pazzi, o scattava la punizione. Non ci voleva andare nei sotterranei del castello a lavare i piatti insieme alla servitù; ma aveva parlato con lui, per la prima volta e, se mai l'avessero dovuta scoprire, dei piatti da lavare sarebbero stati una punizione accettabile, adeguata, forse addirittura misera.
Una guardia le sbatté contro. La scrutò da sotto il cappello blu. Non ebbe il tempo di pensare, doveva solo agire. Dentro il cuore le batteva forte: o finiva a lavare i piatti o dentro la stanza da cui era appena uscita. La scelta non era difficile. Lo sconosciuto biondo, l'avrebbe perdonata. Era un'emergenza.
Con lo sguardo perso, si succhiò il pollice:
«Mamma? Mammina? Non spengere la luce!!».
La guardia scosse la testa:
«Ma pensa.. peccato, saresti anche molto carina..» la prese per un braccio, si guardò intorno. Probabilmente non aveva voglia di chiedere informazioni a qualcuno di più competente:
«Allora... dov'è che vuoi andare? Dov'è la tua camera?». Ines si morse il labbro inferiore. Doveva recitare bene, non sbagliare nemmeno una mossa:
«Dalla mia mamma!!!!Dalla mia mamma!!!!Lì!Lì!» indicò la stanza numero 34, la stanza di Ian. Poi si rimise in bocca il pollice e batté i piedi per terra come una bambina viziata.
L'uomo la gettò come un sacco di patate dentro la camera bianca e odorante di farmaci, e sbatté la porta.
La ragazza era stesa sul pavimento; due occhi blu dall'alto del letto la guardavano.
Rise, arrossì. Si rialzò in piedi.
«Sto bene.» volle precisare «Mi perdonerai se sono di nuovo qui... E' che...»
«Non scherzare con questo posto. Lo dico per te.» l'interruppe lui tra un colpo di tosse e l'altro. Era ancora serio, ma gentile:
«E ora? Che intendi fare?» la guardò con aria strafottente. Inarcò un sopracciglio e accennò un sorriso.
Lei sbuffò. Si diresse verso l'altro letto.
Lui sorrise teneramente. Alzò gli occhi sull'orologio appeso al muro bianco. Si inumidì le labbra violacee:
«Tra cinque minuti le guardie si radunano nel box a mangiare panini farciti e a guardare giornaletti porno» la informò scuotendo la testa e sorridendo. Alzò gli occhi e la ubriacò di sguardi, non c'era un angolo del viso di lei che non fosse avvolto da quegli sguardi.
La ragazza stentava a ricambiare le occhiate:
«Quindi?» chiese a testa china
«Ti aiuto ad uscire di qui» rispose lui fiero.
Lei gemette:
«Davvero ci riuscirai?»
«Dopo dodici anni, ne so qualcosa di scorciatoie e trucchi!» si vantò «E se tu ti fidi di un pazzo squilibrato ...» sorrise.
Lei sentì il cuore accelerare i battiti. Forse perché il "Ti fidi di me?" era la frase cliché nei film romantici dall'invenzione del cinematografo.
«Non credo che tu sia pazzo» volle rassicurarlo seria.
Lui con uno sforzo immane si alzò dal letto e si liberò dalle flebo.
«Vieni!» le fece strada.
Lei gemette, era preoccupata.
«Io ... non volevo farti agitare! Perché ti sei tolto le flebo?! E adesso?» si allarmò. Lui era troppo concentrato ad andare verso l'ascensore per rispondere.
Una guardia, insospettita si fece avanti nel corridoio. La videro in tempo.
«Ci penso io» Ian le indicò l'ascensore «Corri fin lì, prendilo arriva direttamente al secondo piano, vicino ai bagni. Apri la porta e un cunicolo stretto, ti condurrà direttamente dentro la sala di lettura. Nessuno dovrebbe vederti» la tranquillizzò. Nell'agitazione si fece spazio un istante in cui gli occhi neri di lei penetrarono dentro quelli del ragazzo, ma quell'istante fu, troppo presto, rotto dalla necessità di salvarsi da una bella punizione. Fu lui il primo a voltare le spalle per precipitarsi a distrarre la guardia. Lei rimase immobile qualche secondo, in trance; vide quella figura longilinea e dal passo barcollante allontanarsi.
Corse, ed entrò dentro lo sgabuzzino stretto che viaggiava su e giù come una marionetta, appeso a fili troppo leggeri e pericolanti. Il cuore le batteva forte, le gambe le cedevano. Quella voce rassicurante le riecheggiava ancora nella mente. Rise da sola, come una cretina, mentre l'ascensore rugginoso la portava al piano inferiore.

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