La sala comune

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Erano passati ormai undici giorni. Era la prima volta che poteva avere un'interazione sociale con i ricoverati. Aprì la porta della sala comune: una buona occasione per osservare i soggetti lasciati indisturbati. Scrutare ogni loro fissazione, cogliere ogni dettaglio, o almeno provarci, e individuare un oggetto particolare da cui non si volevano staccare. Ines non era estranea al suo tempo, era ben documentata e lo sapeva che non erano necessari notevoli requisiti per finire lì dentro. Bastava essere balbuziente, avere qualche leggero ritardo, essere reduce di traumi infantili, di traumi bellici o essere beccati a vendere il proprio corpo per vivere. Più semplicemente bastava essere il figlio ribelle e indesiderato di una famiglia ricca per essere accompagnato oltre il cancello che separava il manicomio dal mondo esterno, ed erano davvero tanti quei cancelli sparsi per l'America e per il mondo. Si sedette su una poltrona bassa e scomoda. Era l'anno del debutto vero e proprio della disco music: il giradischi suonava a ripetizione "Lady Marmalade" di Patti Labelle.
Da quando era entrata non riusciva a non guardarlo. Era poco distante da lei, li divideva solo un lembo di pavimento, stretto e sudicio.
Stava curvo su se stesso, l'aria scocciata e la fronte rannuvolata dietro cui si celava chissà cosa. Nervosamente scarabocchiava qualcosa su un tavolino, isolandosi da tutto e da tutti; le braccia si muovevano in modo regolare, quasi meccanico, le mani, magre e venose, impugnavano una biro. Il suo profilo era perfetto, il suo respiro inquieto. Era la seconda volta che Ines lo vedeva e l'ennesima volta che si domandava che diavolo ci facesse lì.
Il ragazzo biondo tossì a più riprese; come la sua personalità, anche la sua tosse uscì fuori con riservatezza: la sua espressione non era né infastidita, né sofferente: sembrava abituato a convivere con quella bronchite.
Ines aveva tra le mani un blocco per gli appunti, si rigirò tra le dita la penna stilografica. Si mordicchiò le labbra, si guardò intorno, ma gli occhi ricaddero inevitabilmente su di lui nel giro di qualche minuto. Sentì la salivazione venirle a mancare. Pensò che aveva tutto il diritto di andargli a parlare, era previsto, era una procedura del tutto lecita. Lui era un paziente e lei l'analista. Prese fiato, si strofinò le mani sudate sui pantaloni color abete. Lo sguardo fisso su di lui. Sentì una mano calda contrastare con le proprie palme, fredde e magre.
«Balla con me!». La ragazzina affetta da microcefalia che le stava davanti si spalancò ad un sorriso con quei denti sporgenti e protagonisti nella faccia piccola e informe «Dai dai!» incitò sputacchiando. Ines non poté far altro che alzarsi, continuando a tenerla per mano. Incrociò gli occhi ridenti del ragazzo taciturno che solo adesso si era accorto di lei. Quegli iridi su di sé la folgorarono. Quello sguardo era buono e sensuale nel contempo. Sembrava che con gli occhi volesse comunicarle il suo consenso per aver assecondato le richieste di una bambinetta malata nella mente e nel fisico. Ines si inumidì le labbra strette in un sorriso imbarazzato. Lui ricambiò il sorriso. La musica suonava accompagnando i passi sbilenchi e casuali delle due giovani. Senza nemmeno accorgersene aveva già intorno un gruppetto di quei pazienti della seconda categoria che facevano a gara per ballare con lei. Quei volti assurdi ridevano felici e quei sorrisi davano l'idea di essere così ricorrenti: infondo a quei ragazzi bastava poco, anche solo una canzone, per apprezzare la vita. Ancora giravolte e passi grossolani. Le braccia lunghe e sproporzionate della ragazzetta microcefala si agitavano come quelle di uno scimpanzé e la gonna azzurra svolazzava lasciando vedere gli stinchi magri e la calzatura infantile.
Un infermiere con una cartella clinica in mano, piombò nella stanza:
«E' ora della visita» comunicò al ragazzo misterioso, con tono serio. E lo portò via.
Ines smise di ballare. Guardò la sedia vuota: un maglione bianco e nero di lana era appoggiato alla spalliera, dimenticato o lasciato lì volutamente. Abbandonò gli altri alla musica, corse fino all'indumento come se temesse che qualcun altro la potesse precedere. Lo prese: profumava di muschio e di mare. Era il profumo di lui. Affondò la faccia in quella giacca lunga e strana, quella specie di maglione aperto che lui utilizzava come giubbotto. Quasi perse i sensi tanto profondamente aveva aspirato quel profumo, nella, ovviamente vana, speranza di poter carpire da esso anche solo un frammento della storia di quel giovane sventurato.

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