Era la seconda volta che si trovava davanti alla porta dell'ufficio di Lewis Northon. La prima volta quando pensava di aver assistito alla morte di Ian Phoenix. In quella situazione catastrofica, ad un passo dal bussare e mettere in cattiva luce Adrian agli occhi del preside, il pensiero che Ian fosse vivo, le strappò un sorriso, non totalmente ilare come la cosa, posta in essere, avrebbe meritato, ma pur sempre un sorriso. Inspirò. Bussò con poca sicurezza, il suono delle nocche sulla porta le fece realizzare che non importava con quanta sicurezza lo avesse fatto: tra tre... due... uno, il rettore l'avrebbe accolta nel suo studio.
«Signorina Danver» si stupì «Prego», si alzò, prese un bricco dal tavolino:
«Del caffè?»
«Si, la prego» si affrettò a rispondere. Non aveva ancora assunto caffeina quel giorno, e in media prendeva almeno sei caffè nell'arco della giornata. Strinse la tazza di caffè nero amaro tra le mani. Prevedeva che la cosa sarebbe stata lunga e che non sarebbe stata un conversazione delimitata tra lei e Northon. Bevve tutto d'un fiato fino ad ustionarsi il palato.
Espose le problematiche che era riuscita a percepire circa il comportamento di Adrian nei confronti del suo protetto, gli atteggiamenti ambigui e meschini dello studente, le pratiche non propriamente ortodosse adottate da quest'ultimo. Più ne parlava, più era convinta di andare avanti per quella strada e allora raccontò, raccontò e raccontò ancora, sempre più infervorata, sempre più motivata. Solo alla fine, quando i suoi racconti lasciarono spazio a un silenzio tombale e si sentì schiacciata dal vuoto dello sguardo indecifrabile di Northon, rivalutò l'idea che aver esposto i fatti non fosse poi, poi stata una trovata geniale.
Il preside si stirò la giacca sagomata, di pura lana vergine italiana:
«Le sue dichiarazioni mi lasciano interdetto. Siete miei studenti ma vi trovate, ad oggi, inseriti in un programma impartito ad ognuno di voi dalle autorità di questo istituto. Non posso agire da solo circa gli eventuali provvedimenti da prendere nei riguardi di un determinato studente. Dovrò accertarmi che il lavoro svolto dal signor Keller sia in linea con quanto suggerito da Wagner, così non fosse concorderò con chi di dovere il metodo secondo cui procedere» aggrottò la fronte pensieroso. Ines comprese quanto potesse essere fallimentare per il rettore di una prestigiosa facoltà, dover mettere in dubbio la professionalità di uno dei suoi studenti migliori, e doverlo fare dinnanzi a chi, stava affidando i propri pazienti alla preparazione che si dava per scontato avrebbero dovuto avere tali studenti. Improvvisamente il senso di colpa si fece strada in lei. Sentì la salivazione azzerata. Non osò proferir parola, anche perché non ne sarebbe stata fisicamente in grado.
«Mi raggiungerà nello studio della Shyamalan. Convocherò anche il signor Keller» disse Northon prendendo la cornetta del telefono e fissando un appuntamento con la bionda signora austera il prima che fosse possibile. Non le chiese se fosse sicura. Nessuna possibilità di tornare indietro e forse, quella possibilità, Ines, neanche l'avrebbe voluta. Ascoltò la telefonata senza riuscire ad incamerare neanche mezza parola. Abbassò lo sguardo sugli stivaletti di vernice che battevano sul parquet: eccolo il tic nervoso che si presentava ogni volta che l'irrequietezza la faceva da padrona. Cercò di darsi un contegno ma le gambe traballavano, indomabili come il cavallo di un rodeo.
«Ecco fatto. Ci troveremo davanti all'ufficio della Shyamalan tra un'ora in punto». Notò le gambe della ragazza che, effettivamente si sarebbero fatte notare anche senza quel tremolio:
«Nel frattempo, faccia una passeggiata, beva dell'acqua e si rilassi» suggerì l'uomo lustrando con un panno in microfibra le lenti rotonde degli occhiali.°°°°°°°°°°°°
Mancavano ancora quaranta minuti all'appuntamento e già era davanti allo studio della Shyamalan con un altro bicchiere di espresso in mano. Boris, in bilico su una scala, stava affiggendo dei nuovi cartelli, la pancia tonda e dura come un'anguria, se fosse stato un funambolo lo avrebbe sicuramente penalizzato, tanto avrebbe sbilanciato il suo equilibrio. L'uomo sulla cinquantina le sorrise e la salutò con un cenno della mano. Ines ricambiò. Boris, così come Pluto, era onnipresente, eppure nessuno badava a lui. Erano così utili e venivano considerati così dispensabili. Non avrebbe mai voluto fare quella fine da grande. Probabilmente, invece, avrebbe avuto la medesima sorte, e con ogni probabilità il passo definitivo verso il baratro sarebbe stato decretato esattamente nello studio che aveva di fronte, una mezz'ora più tardi. Aveva la propria vita in mano e forse stava per schiacciarla come una pallina di carta straccia. Si guardò intorno: a proposito di carta, doveva cestinare il bicchiere usa e getta rivestito ancora dalle macchie di caffè brasiliano dall'aroma irresistibile. Si mordicchiò le unghie. Se Adrian fosse arrivato prima degli altri, le cose non si sarebbero messe bene per niente. Ributtò gli occhi su Boris, sperando restasse nei paraggi in caso di evenienza. Si sentì fiera di se stessa, nonostante tutto, quasi quanto quella volta che di nascosto aveva portato via il gatto delle vicine, maltrattato e lo aveva liberato da una gabbia stretta e puzzolente dove era stato costretto per sei anni. Si era sempre battuta per una buona causa, pensando all'unica cosa con cui sarebbe stata costretta a vivere per sempre: la propria coscienza. Il pensiero circa il risultato di quella riunione passò improvvisamente in secondo piano. Una presenza ancora lontana avanzò a passi lenti, ma sicuri e il corpo imponente di Paul le si palesò davanti.
«Ines?» pronunciò il suo nome quasi per assicurarsi che un demone non si fosse impossessato di lei. Essere davanti allo studio della bionda signora non prometteva mai nulla di buono e non credeva che Ines potesse aver motivo di essere lì. La ragazza avrebbe voluto gettarsi tra le sue braccia, ma sapeva che non si era in una scuola primaria dove puoi sempre contare sull'appoggio della maestra più magnanima. Rispose solo con un sorriso muto e afflitto.
«E' tutto a posto?» chiese sospettoso il dottor Turner. Lei titubò, poi scosse la testa:
«Forse mi sono messa in un pasticcio. Ho notato delle ambiguità e non ho saputo tacerle» strinse i denti e lo guardò dal basso socchiudendo gli occhi scuri e insicuri.
«Questo posto è pieno di ambiguità» si guardò intorno l'uomo. Gli sorrise. Si sentiva così protetta, ma non poteva chiedergli di restare.
«Stavi aspettando loro?» domandò lui allungando il collo per guardare in fondo al corridoio. Ines esitò prima di guardare a sua volta: Northon, Adrian, Murray, la Brown e persino Wagner. Una squadra di football, praticamente. Si pentì di aver optato per il caffè, anziché per una bottiglia di whisky. Dall'altro lato del corridoio arrivò Ashton. Paul si voltò verso il figlio:
«Ehi, sapevi anche tu...?».
La risposta del ragazzo fu diretta ad Ines anziché al padre:
«L'ho saputo da Adrian» la schermì con un'occhiata inacidita. Ines fece una smorfia di imbarazzo. Paul prese da una parte Ashton per far passare il gruppo pronto ad entrare nello studio di Ann. Ines si schiacciò in un angolo, lo sguardo distruttivo di Adrian la strinse ancor di più contro il muro, si sentì come nella morsa di un ragno, intrappolata da ragnatele opprimenti e inflessibili. Wagner la squadrò. Sentì il cuore tamburellarle nelle orecchie.
«Vuole unirsi a noi, Turner?» chiese il chirurgo quasi si fosse trattato di una partita di poker. Ashton si sentì chiamato in causa e fece un passo avanti.
«Non lei» lo sottrasse subito dalla mania di protagonismo Frederick. Lanciò uno sguardo ammaliante a Paul, che annuì consenziente. Gli inviti di Wagner erano insoliti ordini camuffati da cortesie disinteressate. Tali proposte non venivano mai rifiutate da coloro che avevano una capacitò innata di smantellare i malsani motivi che si celavano dietro quel travestimento.
Chiusero la porta e Ashton restò fuori. Si accese una sigaretta. Era tanto innervosito che la concentrazione per non prendere a cazzotti la parete aveva preso il sopravvento sulla concentrazione per origliare al di là della porta. Avrebbe aspettato lì e sperato nel verdetto giusto. Avrebbe aspettato per poi sprigionare in faccia alla sua ragazza tutta la collera che stava soffocando in quel momento. La decisione di Ines era un'imprudenza che avrebbe potuto rivelarsi esiziale. Non capiva cosa le avesse detto il cervello.
All'interno della stanza c'era un acre odore di chiuso. Le sedute furono arrangiate per far accomodare i presenti. Forse era la prima volta che quel minuscolo pertugio affumicato ospitava più di tre persone. Wagner, si accomodò in piedi; dall'alto della sua magnificenza apriva sempre bocca dopo averlo lasciato fare alla Shyamalan. La verità è che il grande scienziato non aveva intenzione di sprecare soverchie parole per l'introduzione, ben conscio del fatto che le conclusioni spettavano unicamente a lui, per esprimersi in termini editoriali. Insomma stava sempre un passo dietro di lei, ovviamente consapevole di esserle almeno tre passi avanti. Ines li guardava e anche se non era quello il momento più appropriato per certe riflessioni, confermò la sua tesi che il loro rapporto nascondesse qualcosa, di non propriamente o necessariamente sentimentale, ma, senza ombra di dubbio, sconveniente.
«Quindi, se non erro, parliamo di sue ipotesi circa la negligenza del signor Keller?» si rivolse a lei la Shyamalan quasi millantando agli occhi dei presenti l'audacia della ragazza.
Ines vacillò sulla sedia, strusciò le mani sudate sui braccioli, si sentì risucchiare da quella seduta scomoda che dal suo corpo venne percepita come una poltrona molle e conglobante su cui affondare. Annuì. Prese forza:
«Sì. I- Io mi sono permessa di disturbare il preside Northon e tutti i presenti, in seguito a una ponderata riflessione su ciò che ho potuto osservare durante la condivisione degli spazi con assistiti ed assistenti. Verrò velocemente al nocciolo della questione: Adrian sta utilizzando un metodo di recupero, per il mio modestissimo parere, poco civile nei confronti del paziente affidatogli»
Wagner rise sprezzante;
«Mi usi una cortesia: potrebbe spiegare nello specifico di quali metodi si tratterebbe?»
Ines strinse gli occhi, poi li riaprì per guardare di sbieco Adrian. Sentiva la presenza di Paul dietro di lei, quasi a pararle le spalle, peccato che le persone da cui avrebbe dovuto difenderla, non la stavano aggredendo alle spalle. Erano tutti ben esposti, davanti a lei, rigidi e sicuri come soldatini di piombo. Il destino stava già preparando per lei un tiro mancino, decise di non essere così gentile, fremette leggermente:
«E' politicamente corretto, dottor Wagner, usare violenza fisica nei confronti di un paziente?» deglutì per dissetarsi con la sua stessa saliva e cercò di non mollare lo sguardo insano del chirurgo davanti a lei, di spalle alla finestra.
«Lei sta generalizzando, mi perdoni» replicò questi voltandosi in cerca di consensi, che sapeva non sarebbero tardati ad arrivare. Murray, infatti, prese parola:
«Lei, signorina Danver, di che paziente si occupa?» chiese quasi retoricamente ma si rese credibile, guardando poi la Shyamalan e Paul Turner:
«Scusate... non posso conoscere a memoria ogni singola coppia tutore/protetto» si giustificò con un falso sorriso impacciato.
«Mia Sullivan» lo assecondò Ines, sapendo dove si voleva andare a parare.
«Credo che i signori saranno d'accordo con me nel convenire che le sistematiche usate dalla Danver nei confronti della sua assistita, debbano per forza di cose differire da quelle optate da Keller. Si tratta addirittura di due categorie di pazienti distinte. Con tutto il rispetto, Frederick, ipotizzo che volesse intendere questo con il non poter generalizzare»
«E' esattamente quanto intendevo» confermò, alzando il mento e cercando di fissare Ines abbassando quanto più possibile lo sguardo, e proseguì:
«Ricordiamo che Larry è un paziente ipocondriaco, il dottor Turner può confermare anche la richiesta di aiuto del compagno di stanza di Larry, affinché fosse messo in atto un allontanamento».
Paul, da spettatore passivo, si mise sull'attenti come un milite:
«Il mio paziente, Ian Phoenix, intendo, è di salute cagionevole. Semplicemente voleva evitare situazioni pesanti, visto che i due ragazzi sono sì, cresciuti insieme, ma le loro sono ambedue situazioni degenerative. Ciò che è stato possibile per anni, adesso sta risultando più difficoltoso. La loro convivenza non può che arrivare ad un punto di rottura. Ho provato a farlo presente senza risultato» lanciò un'occhiata rancorosa ad Ann «Siamo esattamente al conto alla rovescia di una bomba ad orologeria, anche se non vedo cosa dovrebbe entrarci con questa storia»
«C'entra eccome» lo contraddisse Wagner «Il rapporto con Phoenix si sta logorando, come era inevitabile che succedesse. Gli ipocondriaci portano all'esasperazione chiunque li circondi fino a fare tabula rasa dei legami interpersonali. L'ipocondria di James può e deve essere, se non guarita, almeno placata e Keller non sta facendo altro che seguire un programma di "torture", chiamiamole così, fisiche, approvato dal sottoscritto. Inutile che rammenti i diritti che ho su questo posto e sui ragazzi sventurati che vi ho accolto».
Ines si inalberò:
«Ho visto Keller ferire con un coltello da cucina il suo assistito!» dichiarò d'un fiato l'evento che l'aveva spinta ad innalzare quel polverone.
«Ah, quello per estirpare la fobia del contagio del tetano?» sminuì la cosa Wagner «Sì, ne sono al corrente. E' stata una trovata di Adrian, non ho potuto che complimentarmi a cose fatte. Non solo: lo abbiamo fatto graffiare da alcuni gatti selvaggi che dormono nelle stalle, e raccogliere le feci dei nostri amici a quattro zampe a mani nude, sempre per smentire il fatto che avrebbe potuto morire di tetano... Giusto, Keller?».
Riguardò Ines, ormai al tappeto:
«Altre domande?» la sfidò.
«Sì, una» non si diede per vinta la giovane:
«A proposito di Mia Sullivan, i primi giorni sono stata rimproverata perché avevo pensato di giocare a fare l'estetista. Suppongo fosse perché non è permesso è non è fruttuoso mettersi allo stesso pari di individui che per problemi di predestinazione, non possono essere, in nessun modo equiparati a noi. Allora mi chiedo, alla stessa stregua: è ammessa e del tutto inoffensiva questa integrazione promiscua che il mio collega sta ostinando a ripetere da quasi due settimane, coinvolgendo Larry James in attività che possono riversarsi negativamente sulla sua persona? Facciamo presto ad incolpare Phoenix, anzi, dovrei dire a giustificarlo, per aver allontanato Larry, ma la realtà è che Adrian Keller sta portando Larry fuori dalla sua cerchia di amici, mostrandogli un mondo fittizio, dove il povero ragazzo, difficilmente sarà mai ammesso!» indicò Adrian come un impostore. Non si sottrasse a quegli occhi furenti finché non fu lui a farlo per cercare gli occhi della Shyamalan, di Northon e di Murray:
«Questo è ridicolo! La mia collega si sta aggrappando ad elementi senza senso, solo per farmi sbattere fuori! Da quando è un reato regalare un po' di serenità ad un paziente?! Accoglierlo?! Lo sto facendo sentire bene! Sto persino alleggerendo il carico di sopportazione a Phoenix!» sbraitò. Le giustificazioni acerbe e il suo lessico minimale, la fecero sorridere. Se fossero stati due avvocati avversari, lei avrebbe vinto la causa, ma sapeva che quello era un tribunale differente, dove Adrian e lei erano solo imputati, difensori di se stessi. Realizzò in breve tempo che la meritocrazia non dettava legge tra quelle mura e che lei aveva già perso la causa. Non c'era granché da ridere.
Ann Shyamalan fermò le suppliche di Adrian con un cenno impercettibile delle dita:
«Quindi, credo che possiamo congedarci. Sono sollevata di poter affermare che le competenze del signor Keller sono state comprovate. Spero che lei signorina, possa uscire da questa stanza con la consapevolezza che è tutto sotto controllo, senza commiserarsi. Non lo prenda come un fallimento, anzi, per risollevare gli animi spezzerei una lancia in favore della nostra specializzanda e del suo spirito di iniziativa! Di conseguenza se avessi adesso dello champagne, avrei già innalzato i calici per brindare a questo programma che coinvolge i tirocinanti di Harvard, perché questo episodio, in fondo ci fa capire che abbiamo colto nel segno! Non abbiamo accettato qui degli automi in serie, bensì futuri medici che hanno coscienza di sé, con didattiche e logiche individuali».
Uscirono. La prese decisamente come un fallimento. Vide la figura di Ashton, resa nebulosa dalle lacrime che le calcavano gli occhi. Immaginava che non l'avesse aspettata per congratularsi. Non se ne preoccupò.
«E'... E' tutto sbagliato! Io non voglio crederci!» pianse. Non si era mai permessa di superare un certo limite confidenziale con Paul, ma in quel momento fu l'unica persona da cui sentì sprigionarsi un'empatia che nemmeno credeva potesse esistere. Si gettò tra le sue braccia e lui lasciò che quelle lacrime riempissero ogni piega della sua giacca.

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Disturbia
Mystery / ThrillerVenticinque studenti specializzandi dell'università di Harvard vengono selezionati per svolgere un tirocinio presso il "Nun Ester Institute", un centro di accoglienza per ragazzi problematici. Dal loro trasferimento lì verrà fuori la convivenza for...