White party

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Si sistemò le spalline del vestito bianco. Lo specchio rotondo del quale era stata dotata la sua camera, probabilmente era lì da secoli. Sorrise; si appuntò i capelli e finse di essere una nobildonna ottocentesca, ma quando immaginò il cavaliere che la invitava a ballare, il proprio riflesso sembrava confermare che stava nuovamente pensando a quel misterioso ragazzo. Un senso di rabbia la pervase. Distolse gli occhi dallo specchio e posò la spazzola sul cassettone.
Ashton piombò nella stanza. Lei tentò un sorriso:
«Ehi, una sposa non può essere vista prima, dal suo futuro marito!»
«Già, scusa» stette al gioco lui e si voltò di spalle.
Lei lo osservò dallo specchio logorato dalle macchie della vecchiaia:
«Ashton?» si inumidì le labbra tinte da un rossetto rosa pastello:
«Sai se il ragazzo che segui tu ... insomma, ha dei permessi in più degli altri? »
«No. Che io sappia, no. Perché dovrebbe?»
«Non lo so, forse perché sembra più normale degli altri.» Si coprì con una spilla lo scollo del vestito. Si sentiva volgare «Il mercoledì mattina i Disturbia hanno tutti la seduta con la dottoressa Fisher, ma lui era a farsi una nuotata, e non alla piscina coperta, era nel bel mezzo dell'oceano Pacifico>>
Ashton, non poté fare a meno di girarsi per guardarla dallo specchio anticato:
«Una nuotata?» rise «Inny, sei sicura?». Lei non rispose nulla, lui incalzò:
«E' che ci saranno stati appena cinque gradi stamattina là fuori»
«Lo so!», pensò che non era certo colpa sua se quel pazzo non sentiva il freddo.
«Anche per stasera, pensa, che abbiamo contato dieci falò per centonovanta metri quadrati di spiaggia. Altrimenti c'è da restarci secchi!».
Lei storse le labbra in una smorfia:
«Non mi credi?» chiese delusa.
«Ma sì che ti credo... quel tipo non a caso si trova al manicomio, no? Mi è sempre sembrato tutto matto, nonostante abbia quella faccia da angioletto» si alzò e le porse la mano:
«E adesso può baciare lo sposo» le sussurrò posando le labbra morbide su quelle di lei.

La sabbia era fredda, i falò accesi qua e là erano accerchiati da gruppi di ragazzi totalmente vestiti di bianco. Arrivò mano nella mano con Ashton tra le urla, le risate e i "Era l'ora ritardatari!" degli amici. Katy le corse incontro. Erano amiche dal primo anno del College, ma negli ultimi tempi non erano riuscite a vedersi molto spesso:
«Sei bellissima!» si complimentò la ragazza, «Tieni, ne ho catturato uno per te!», le piantò un bicchiere di vodka in mano. Si sedettero davanti al fuoco; Bob addentò voracemente una salsiccia:
«Ma... qualcuno di voi è mai stato nell'ala Ovest?» chiese puntando su ognuno dei lì presenti, sguardi da Norman Bates e adottando un tono di voce raccapricciante nell'intento di far spavento.
Katy si mise a strillare. Ines si voltò indietro per guardarsi le spalle.
«Si raccontano delle storie su quella parte del castello... la notte, a voi non è mai capitato di sentir gridare? Ma non parlo dei pazienti... si dice ci sia un'anima dannata che abita quelle stanze» continuò ad infierire il ragazzo cicciottello leccandosi le dita unte «i pazienti morti qui dentro non sono deceduti di cause naturali come ci vogliono fare credere».
Ines buttò l'occhio sul castello che, a qualche chilometro di distanza dalla spiaggia, si ergeva sopra di loro: nell'ala Ovest, ancora qualche luce accesa che filtrava dalle piccole finestre e probabili lamenti, lontani e confusi, sopraffatti dalla musica della chitarra che Rudolph suonava con abilità. Si accorse di stare stringendo Ashton per la camicia solo quando le dita iniziarono a farle male.
«Ehi, va tutto bene...» la tranquillizzò lui prendendole la mano e facendo passare le dita irrigidite di lei tra le sue.
«Le stai mettendo paura, pezzo di un deficiente! Vedi di piantarla!» si alterò poi rivolto a Bob.
«Ahahah!» rise l'altro «Sto mettendo paura a lei, o a te, per caso? Ammettilo! Te la stai facendo sotto!».
Ines sgranò gli occhi: nessuno si era mai rivolto così ad Ashton, di solito gli amici lo veneravano, ma Bob aveva chiaramente alzato un po' troppo il gomito da quando erano arrivati in spiaggia.
«Quanti bicchieri di rum dovrei fargli ingurgitare, oltre ai cinque che si è già scolato, affinché cada in coma etilico e se ne stia, finalmente, zitto?» scherzò Ashton rivolto a Katy; era però visibilmente seccato:
«Dai, andiamo a berci qualcosa anche noi, voglio vedere se riesco ad essere simpatico come lui!» suggerì poi, alzandosi.
Ines si grattò la nuca osservando passiva i suoi amici dirigersi verso il lungo tavolo degli alcolici. Il vento fece agitare la fiamma del falò; era rimasta sola con Bob che parlava di continuo facendo discorsi senza senso e porgendole di tanto in tanto un drink che lei, anziché buttar giù, rovesciava sulla sabbia. All'ennesimo drink offertogli, decise di bere; buttò giù d'un fiato, sperava che l'alcool affievolisse il peso di tutta quella situazione. Le era stato portato via Denny e insieme a lui il resto della sua quotidianità. Si sentì violata dalla vita. Imprigionata lì, dove i giorni sembravano secoli, due anni davano l'idea di non dover passare mai. Si passò una mano sulla fronte, il fuoco la faceva sudare.
Annoiata, stava per piantare Bob lì e raggiungere il gruppo di Amanda, radunato poco più lontano. D'un tratto si accorse che dal buio del bosco, delle figure in gruppo stavano avanzando verso la spiaggia, altre stavano scendendo giù per le scogliere, sempre con l'intento di unirsi alla festa: i pazzi.
Si guardò intorno, a giudicare da come tutti gli altri ridevano e chiacchieravano, quegli "intrusi" li aveva notati solo lei. Si ricordò che era mercoledì. Si mordicchiò le unghie nervosamente, Bob si era addormentato.
Iniziò a notare che quei pazzi si erano mimetizzati tra la folla, abbastanza bene anche, se non fosse stato che solo uno di loro era, sicuramente per un caso fortuito, vestito di bianco e gli altri sette di nero.
Ashton la raggiunse davanti al fuoco, le sorrise:
«Tutto bene, amore? E' solo un cretino, dovresti conoscerlo ormai...» indicò sprezzante, con un cenno della testa Bob assopito dal troppo bere.
Lei stava per rispondere qualcosa, ma dei bisbigli e qualche esclamazione, seguiti da uno strillo di Gaia, fecero alzare di scatto Ashton e impedirono a lei di iniziare ciò che stava per dire.
Raggiunsero la maggior parte dei "No Problem" che puntava il dito verso l'altra fazione.
Ashton si voltò verso quei "diversi", vestiti di scuro, scomposti, scarruffati, dalle facce inebetite:
«E questi che diamine ci fanno qui?!» gridò, andando su tutte le furie. Alcuni di quelli lo guardarono male, ma lui non si lasciò intimorire:
«Lo sapevo! Sono venuti a rovinarci la festa! Come sempre! Per sembrare come noi... ma non vi vedete? Non c'entrate niente con noi! Dovrebbero tenervi rinchiusi nell'ala Ovest con la camicia di forza!».
Era chiaro: aveva già superato il numero di cocktail consentito. Ashton c'aveva messo una settimana per organizzare quella festa: odiava quando gli venivano rovinati i programmi. Amanda si affiancò ad Ines:
«Perfetto.» constatò incrociando le braccia «Ci mancava la rissa stasera...».
Uno dei "Disturbia", con i capelli lunghi e con qualche tatuaggio sulle braccia si avvicinò ad Ashton, gli puntò un dito lercio vicino alla faccia:
«Che cazzo di problema hai?! Eh?!» si alterò.
Intorno un silenzio unanime, il panico mascherava i volti dei presenti, finché un altro psicopatico non tirò indietro il compagno:
«Su, Donald, smettila» lo calmò. Si rivolse poi ad Ashton:
«Comunque la spiaggia è anche nostra, non hai ragione di reagire così. E' mercoledì.» l'avvertí, tra l'incoraggiamento dei suoi simili.
«Ah! Avete sentito?! Una sera che noi ci permettiamo di organizzare una festa, dobbiamo avere loro tra i piedi, degli individui mentalmente instabili, una minaccia! Ma non è colpa loro, no signori, è colpa dei responsabili! Tutta questa libertà è inammissibile!» si passò una mano sulla testa rasata, poi si accanì sul pazzo che aveva parlato da ultimo:
«E dì al tuo amico che con me ci vada cauto, che non ci provi nemmeno, voi non sapete chi sono!».
Ines lo tirò per un braccio:
«Ashton! Ti prego...», lo portò da una parte. I falò lontani illuminavano i loro volti di una luce tremolante.
«Non puoi metterti contro di loro! Lo vuoi capire?» lo rimproverò «Non sono tutti dei semplici ritardati, tra quelli c'è gente che ha accoltellato poliziotti, gente che già a dieci anni aveva sterminato la propria famiglia! Perché sei così incosciente?!» lo affrontò in tono recriminatorio, poi abbassò la testa, si passò una mano sugli occhi, le venne da piangere: si era presa un bello spavento.
«Mi danno sui nervi! Io non ero abituato a questo...» si giustificò lui.
«Nessuno di noi lo era, ma siamo qui ora e ci sono cose a cui ci dobbiamo adeguare, come al fatto che abbiamo pochi metri quadrati di spiaggia da dividere con altre persone un po' diverse da noi... non rinunceranno a ciò che per anni è stato solo loro: siamo noi gli intrusi ... ».
Il ragazzo strinse le labbra in un grugno e buttò un occhio su quegli otto individui, che ben ambientati, si erano appropriati perfino dei cocktail rimasti:
«E' proprio per il fatto che non posso avere il controllo su di loro, che non li tollero, sono imprevedibili, stupidi, invincibili probabilmente... È proprio assurdo che noi ci dobbiamo occupare di loro» ammise amareggiato.
Lei sorrise comprensiva:
«Non puoi avere il controllo su tutto. Dovresti sforzarti di trattarli da esseri umani quali sono. Stasera non ti avevano fatto niente>>.
Gli accarezzò il volto fascinoso, sperando che si dimenticasse dei "nemici" per un momento e si dedicasse a lei, ma lui schivò la sua mano:
«Se mio padre non fosse rientrato nel nuovo personale dei medici, col cavolo sarei venuto quaggiù!» enunciò avvolgendo con gli occhi verdi e pieni d'ira, il volto della fidanzata.
«Grazie» ribatté lei, più ferita che arrabbiata e lo osservò allontanarsi.

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