Si sedette su uno scoglio, il vestito era tutto sporco e stropicciato; l'atmosfera era quella triste della fine di una festa, anche se i ragazzi non si sarebbero dati per vinti e avrebbero continuato a far baldoria fino alla mattina. Si strofinò le braccia, il vento si stava alzando; deglutì, la gola era indolenzita per via di un pianto soffocato, gli occhi arrossati. Tre degli otto "Disturbia" stavano parlando con dei bicchieri in mano: erano quelli del gruppo del biondo, erano sempre tutti e quattro insieme, ma quella sera, notò, lui non c'era. Si sporse per guardarli meglio, non sembravano folli, una cosa era certa: erano gli unici, oltre a lei, rimasti sobri su quel lembo di spiaggia. Si raccolse le punte del lungo vestito e raggiunse i suoi amici.
Ashton e gli altri ormai erano completamente storditi dall'alcool; tutti abbracciati in cerchio presero a cantare una canzoncina assurda e offensiva:
«Sono un pazzo e nel manicomio sto; sono un pazzo, cervello non ne ho.
E da bambino, di male, cosa hai fatto tu? Oh! Rompere un giocattolo è stato il massimo per te? E non hai mai pensato di mozzare la testa a tua madre come è capitato di fare a me?
Sono un pazzo e nel manicomio sto; sono un pazzo, cervello non ne ho. E da adolescente che cosa hai fatto tu? No, non me lo dire! Non va proprio bene, non aver mai tentato di tagliarsi le vene, mai stuprato una bambina, mai fatto uso di eroina!».
Ines si premette una mano sulla bocca: che cosa gli diceva il cervello?!
Tentò di chiamare Katy che per tutta risposta, barcollando, schiantò una bottiglia di birra contro uno scoglio, tagliandosi sul palmo della mano. In quel momento tra loro e gli squilibrati dell'ala Ovest non c'era molta differenza.
Si allontanò, si dissociava da quello che stavano facendo quelli come lei, i cosiddetti sani, i cosiddetti perfetti.
Camminò a testa china, qualche conchiglia rotta le punse i piedi nudi. Improvvisamente si sentì spintonare; alzò lo sguardo: due occhi pazzi e colanti di trucco nero, la fissavano. Le sue spalle erano strette da delle unghie acuminate che, sentiva, le stavano affondando nella pelle.
«Ahi!» si lamentò, ma non appena la giovane aprì bocca, il dolore fu nulla in confronto all'odore acre del suo alito, pregno di alcool:
«I tuoi amici, hanno qualche problema?» domandò minacciosa, facendo segno con la testa al gruppo che cantava a squarciagola.
Ines era terrorizzata, il respiro tardava ad arrivare, poi si fece forza, prese fiato profondamente:
«N- no! Cioè, loro non... non sono... hanno bevuto! Non sanno ciò che dicono!» cercò di scusarli, rendendosi conto che non esistevano giustificazioni per quanto stavano facendo, e dando paradossalmente, dentro di sé, ragione alla ragazza.
La pazza la squadrò:
«Tu menti. Tu sei come loro!» le prese i polsi; un fulmine attraversò gli occhi impiastricciati di mascara, fissi su Ines.
«No! Io non sono come loro!» gridò, ora più che mai convinta di ciò che stava dicendo.
Si sentì afferrare da dietro, delle braccia lunghe e potenti le cinsero la vita; un mugolio provenne dal ragazzo alle sue spalle, che chiedeva all'altra mentecatta di lasciarla stare. Ines lanciò un urlo; si liberò dalla stretta del ragazzo autistico e iniziò a correre.
Corse a perdifiato per il viale frondoso, lungo e buio che univa la spiaggia all'edificio. Il bosco intorno non taceva. Sentiva gli uccelli notturni emanare canti simili a lamenti; gli ululati si alternavano al fruscio delle foglie mosse dal vento. Il buio era la sua fobia più grande, ma non poteva farsi prendere dal panico; iniziò a pregare, a non pensare. Inciampò in un rovo, i rami spinati le punsero le caviglie. Le lacrime ormai non potevano più essere arginate, persino il proprio respiro le incuteva paura.
Corse più veloce. Prese probabilmente la strada sbagliata. L'imponente fortezza era lì, ma era l'ala Ovest; la guardò dal basso della sua posizione, prese forza nelle braccia e salì la collina. Finalmente un faro dalla luce aranciata avvolse il suo corpo. Nel piazzale davanti al castello, qualche ruota di carro vecchia e qualche gatto alla ricerca di cibo. Si voltò: il fienile, un nitrito dal buio della stalla la fece sobbalzare. Tutte le porte erano chiuse, sigillate. Decise di non utilizzare il campanello e tentò di forzare una porticina di legno sul retro. Era dentro.
Un corridoio pressoché buio e una rampa di scale sulla destra. Prima di salire, la sua attenzione fu attratta dalle celle in fondo al corridoio da cui provenivano rumori di catene e qualche urla. Rabbrividì e a due scalini per volta salì la rampa.
L'ingresso stavolta era grande e ben illuminato, il pavimento di mattoni rossi dava l'idea che quella parte del castello non fosse mai stata ristrutturata. I candelabri arrugginiti che spuntavano dalle pareti, convivevano con potenti neon schierati lungo il soffitto annerito.
Vide alcuni dottori col camice bianco e due infermiere. Si avvicinò, non aveva scampo, ma non voleva scappare, non poteva scappare: quella era l'ala Ovest, niente era sicuro. Almeno con loro lì, sarebbe stata protetta.
Da una stanza, quella davanti cui tutti i medici erano riuniti, uscì il dottor Turner, Paul, il padre di Ashton.
Ines fece capolino dall'angolo del muro spesso, dietro cui era nascosta.
«Speravo in una maggior competenza! Siete soliti lasciare i ragazzi andarsene a fare piacevoli nuotate in quell'acqua gelata?!» si alterò il dottore togliendosi con poca grazia il camice.
«Non dovrebbe chiederlo a noi...» ribatté in tono pacato uno dei medici.
«E invece lo chiedo a voi! Siete qui da prima di me, mi sembra, è da anni che siete qui, è da anni che conoscete i pazienti... e le regole» li rimproverò.
Una giovane infermiera, intimorita e preoccupata, uscì fuori dalla stanza misteriosa.
«La febbre è salita ancora, quasi quarantadue gradi, sta collassando e respira appena» enunciò con voce tremante porgendo il termometro a Paul. L'uomo si precipitò nella stanza. Gli altri medici lo assecondarono. Stettero lì dentro per un po'.
Ines ebbe un cattivo presagio. Gli occhi grigi e profondi incrociati quella mattina, le annebbiarono per un istante la mente. Chiuse gli occhi ed era come se sentisse su di sé le gocce d'acqua che, dai capelli di lui, le cadevano sul viso, salate come l'acqua del mare. No, non erano gocce d'acqua, erano lacrime: lo sapeva chi c'era in quella stanza, se lo sentiva. E allora? Perché stava piangendo? Cosa sarebbe dovuto importarle? Si asciugò gli occhi poi sentì confusa la frase:
"Non deve assolutamente restare da solo stanotte. Aspettiamo l'effetto del cortisone".
La vista offuscata le fece distinguere due figure che si avvicinavano.
«E lei signorina, che cosa ci fa qui?» uno dei dottori la prese per un braccio, ma con delicatezza. Vide il volto invecchiato e indefinito di quel medico. L'altra, una donna, la esaminava come si trattasse di una nuova specie. Lei si passò una mano sulla fronte, la testa le scoppiava. Il poco alcool ingerito stava dando i suoi effetti. Deglutì.
Il dottor Turner la riconobbe e la raggiunse:
«Ines!» la scosse. Le posò una mano sulla spalla, poi tranquillizzò il collega:
«Ci penso io. Lei è a posto.». Le alzò le palpebre con le dita, le spalancò forzatamente gli occhi arrossati, li scrutò:
«Sei solo stanca. Vieni, ti accompagno a letto. Non saresti dovuta venire in questa zona.» la guardò storto inclinando la bocca in un sorriso paterno.
Incredibile, Paul conosceva tutte le scorciatoie. Attraversarono in pochi minuti l'edificio, passando dall'ala Ovest alla più rassicurante ala Est. La riaccompagnò fino alla sua stanza.
«Non ti divertivi più alla festa, scommetto» tentò di indovinare gratificandola con uno sguardo dolce.
Lei scosse la testa, ricambiò il sorriso.
«E il furfante di mio figlio? Quanti ne ha buttati giù?» chiese ironico riferendosi ai bicchieri di alcool.
Ines assunse un'espressione nella quale si poteva leggere tra le righe: "troppi" e non si pronunciò a parole.
«Dai, riposati. Per qualsiasi necessità conta su di me».
L'uomo se ne stava andando. Ines lo richiamò indietro:
«Dottore!»
«Sì?»
«Chi è? Il ragazzo, chi è?» chiese tutto d'un fiato, posando gli occhi suggestivi sull'uomo.
«Quello che stavo visitando poco fa? Ian Phoenix. E' tra i casi meno critici. Ashton si occupa di lui»
Ines annuì. Si incupì:
«Cos'ha?».
Paul spostò lo sguardo a terra e sospirò:
«Spero che la febbre scenda. Per il poco che l'ho conosciuto, credo che non meriterebbe neppure di stare qua dentro» affermò quasi irritato.
Lei si rattristò:
«Mi potrebbe far sapere se le sue condizioni migliorano? Io... lo so che non sarebbero fatti miei, solo che...»
«Ma certo. Io farò del mio meglio. Ines due cose: la tua sensibilità è ammirevole e... dopo tre anni che stai con mio figlio, non hai ancora capito che puoi chiamarmi Paul?» le sorrise e abbandonò la soglia della porta.
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Disturbia
غموض / إثارةVenticinque studenti specializzandi dell'università di Harvard vengono selezionati per svolgere un tirocinio presso il "Nun Ester Institute", un centro di accoglienza per ragazzi problematici. Dal loro trasferimento lì verrà fuori la convivenza for...