"Nun Ester Institute"

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«Terra!» gridò uno dei ragazzi guardando dall'oblò. Ines, come gli altri, si insinuò tra la folla, con la faccia spiaccicata sul vetro sporco, per scorgere quello che il panorama offriva: un'isola rocciosa, ancora lontana; gli alberi si innalzavano sui pendii e sembravano doversi tuffare a precipizio, giù nel mare. Avvicinandosi si riusciva a notare un lembo di spiaggia da dietro le rocce. Dei volatili sorvegliavano l'isola che già si presentava sinistra e tetra. E lassù, sul punto più alto, l'edificio grigio che sarebbe stata la loro casa per un po'; per un tempo che sarebbe potuto essere più o meno lungo, un tempo dettato dai buoni risultati accademici, dalla velocità nell'apprendere, nel laurearsi, dalla velocità nel riuscire a salire al momento giusto su quel traghetto che passava di lì una volta ogni sei mesi, se le condizioni atmosferiche lo consentivano, nella forza per restare lucidi quando si è circondati da psicolabili, per non impazzire quando l'unica casa che abiti è un manicomio. Ines si sentì cedere le gambe. Forse poteva farcela ... forse.
Qualcuno dell'equipaggio, una voce femminile e a lei sconosciuta, annunciò che ci si doveva approssimare all'uscita.
Iniziarono gli spintoni, i corpi erano pressati gli uni con gli altri, ogni tanto qualche voce stridula, le aggrediva i timpani, il tanfo di sudore aleggiava nell'aria. Tutto iniziava ad essere pesante e ciò che li attendeva,  per tutti,  era ipoteticamente migliore di quel traghetto lurido e malsicuro su cui erano stati fin troppo tempo.
La brama di scendere, stava prendendo il sopravvento. Tranne che per lei. Quel traghetto era un mezzo per tornare indietro, l'isola era immobile, estranea. Una volta approdati si era in trappola. Si strascicava  come uno zombie, prendendo una gomitata a destra, uno spintone a sinistra e continuava ad avanzare a rallenty verso la porta, quasi per far dispetto a chi stava confondendo il corridoio con una pista di formula uno.
«Amore, muoviti però, cerca di farti strada che se no non usciamo più» le ordinò Ashton. Sentiva il suo corpo possente, impaziente di respirare aria pulita, premergli sulla schiena.
Erano arrivati giusto per l'ora di cena. Il tramonto in quel luogo aveva un che di spettrale.
La malinconia per quel che aveva lasciato dietro di sé la soffocò all'istante.
Realizzò che presto avrebbe conosciuto dei ragazzi che non avevano niente per cui provare malinconia, che non provavano malinconia e nessun tipo di sentimento probabilmente, che si esprimevano a gemiti, che non avevano una casa e l'unica famiglia che avevano erano gli infermieri e gli psicologi che, stufi delle loro manie, li sedavano ogni poco, e magari fingevano anche di volergli bene.
Sarebbe stato tutto così freddo, anaffettivo. Si rifugiò nello sguardo familiare di coloro che, con lei, stavano per mettere piede sulla lunga scalinata di ciottoli che si faceva spazio fra il folto bosco e che, come una grossa vena, li avrebbe condotti al castello, un cuore di pietra.
Davanti a loro un cancello arrugginito e scuro, sbarrava la strada per entrare definitivamente dentro la proprietà. In alto, poco sotto le punte spigolose delle sbarre, in una targa invecchiata, le lettere in rilievo, a caratteri grandi, erano sverniciate e corrose da tutti gli eventi atmosferici che erano passati sull'isola fino a quel giorno.  Si riusciva a leggere:   
"NUN ESTER INSTITUTE".
L'edificio era in piedi dalla fine del diciassettesimo secolo. Prima, adibito a monastero di suore claustrali  carmelitane, in seguito, trasformato in un centro di igiene mentale e riabilitazione per giovani sventurati.
Pare che le suore non riuscissero più a reggere da sole le spese di quel posto. Gli aiuti erano scarsi e spesso laggiù, dove il mare le divideva dalla civiltà, sembrava che anche il Signore che pregavano tanto, le avesse abbandonate.
Solo le tempeste erano un segno frequente e sinistro mandato dal cielo, quelle tempeste che non lasciavano tregua, che gonfiavano il mare scuro e collerico, fino a farlo innalzare paurosamente tanto da far restare il traghetto fermo per molte settimane. Niente aiuti in caso di emergenza, niente cibo, niente medicinali.
Frederick Wagner, il medico che si occupava delle suore e che di tanto in tanto faceva visita al Nun Ester, fu la loro manna dal cielo. Noto neurochirurgo di origine tedesca e studioso dei comportamenti umani,  aveva visto in quel luogo un edificio ideale per accogliere pazienti con disturbi mentali. Vi era spazio a sufficienza per ospitare diverse categorie di malati psichici e stanze che ben attrezzate potevano prestarsi ad ogni genere di nobili studi e ricerche per il progresso in campo medico- psichiatrico.
Non ci volle molto perché Wagner avanzasse la richiesta all'ordine monastico e, visto lo stato di degrado in cui il castello stava cadendo, ci volle ancor meno per  avere una risposta positiva. Dopo un solo incontro con la badessa e qualche firma, il dottore ebbe in mano tutto. Fu, insomma,  un passaggio di proprietà molto rapido.
Da allora le celle per le monache si dimezzarono. Wagner fece costruire dei laboratori e un'immensa biblioteca. I  suoi soldi e la fiducia che la comunità scientifica e la gente della sua contea nutrivano per lui, fecero sì che in poco tempo fosse completato il suo regno.
Non ebbe però la pretesa di cambiare il nome del posto. Ester era il nome della suora fondatrice del monastero, una prediletta di Cristo e quel nome sarebbe stato di buon auspicio.
Lo stimato ricercatore era ora protettore delle suore, loro benefattore. I pazienti dell' Ester Institute erano nelle mani di uno dei pochi al mondo in grado di compiere su di loro il miracolo. Le famiglie facevano a gara perché i propri figli venissero accolti lì, visti i limitati posti a disposizione.
 La sua figura mancava all' Università dove insegnava e alla clinica dove era primario. L'America non poteva fare altro che stimarlo per la sua scelta, comprendere che ogni genio ha bisogno del suo spazio e sperare che da quel luogo timorato di Dio dove si era rifugiato arrivassero il prima possibile notizie di scoperte sensazionali, piccoli tasselli per comporre il percorso progressivo della scienza della salute.
Più tardi le cose cambiarono e quel luogo cadde nel dimenticatoio. Wagner che non aveva trovato risposta ad alcuna malattia psichica e alcun rimedio al tumore al cervello al quale stava lavorando da anni, si ridusse a essere magnificato solo da quelle suore e dai suoi assistenti che da sempre vedevano in lui un mentore e che non smettevano di prestargli servizio e assecondarlo nei suoi assurdi esperimenti privi di reali sbocchi.
Una cosa era certa, quel posto pullulava di casi umani, era lontano da tutto, era una buona palestra per chi doveva farsi le ossa e Wagner aveva tempo a disposizione per plagiare specializzandi, giovani promesse approdate lì dalla più antica e prestigiosa università degli Stati Uniti.

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