Capitolo Cinquantaquattro.

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Una settimana.
Una settimana, sette giorni, centosessantotto ore.

Quando Zayn e gli altri erano rientrati le lacrime erano tornare a scorrere sulle mie guance, Zayn stesso isterico si era avvicinato a me, con voce nervosa chiedendomi cosa fosse successo eppure la sua voce arrivava ovattata alle mie orecchie.

La mia mano finì sul mio collo per nascondere il punto in cui sicuramente sarebbero usciti dei lividi e quando capì spalancò gli occhi, gaurdando il suo migliore amico ancora accucciato a terra che continuava a singhiozzare e tirare su con il naso.

Una settimana, passata chiuso nella mia camera, senza vedere nessuno, senza parlare con nessuno.
Avevo scritto ad Adam che avevo bisogno di tempo, che avrebbe potuto licenziarmi se non gli fosse andato bene e che avrei comunque ripagato il danno causato sa Harry.
Una settimana, in cui l'unico tragitto era quello dal letto al bagno.
Quattro giorni passati al più completo digiuno, perfino l'acqua mi nauseava.
Al quinto mi obbligai a mangiare, la mia testa girava anche nei movimenti più piccoli.

Zayn si fermava fuori dalla porta, diceva che mi sarei ammalato se avessi continuato così.
Non importava, ero già fottuto ne più ne meno.

Avevo finito le lacrime, la confusione nella mia testa era tale che ad un certo punto pensai di non avere più un vero e proprio motivo per piangere.

Pensai di farmi male, perché la sofferenza era troppa, perché me lo meritavo ed era l'unico modo che conoscevo per sfogarmi.
Ma quando cercai le lamette nascoste nella mia valigia vuota, buttata malamente a terra, non le trovai e sospirando, pensai che forse era meglio così.

Una settimana e due maglioni cambiati, a collo lungo per nascondere a me stesso i segni lasciati sul mio collo.
Ogni volta che li vedevo la scena mi tornava in mente e miei polmoni venivano schiacciati da un peso invisibile, facendomi annaspare per un tempo indefinito.

Harry non era più in casa, Zayn mi parlava, diceva che non stava più tornando a dormire, che nessuno riusciva a parlargli.

Non riuscivo a non sentirmi in colpa anche se non avrei dovuto e in un pomeriggio qualunque di quella settimana mi resi conto di ritrovarmi completamente nello stato mentale di una vittima di abusi.
Il senso di colpa, la paura di aver sbagliato, la paura di lui, l'ansia, l'umiliazione, gli incubi notturni.

Che esagerato che sei, dicevo a me stesso mentre scacciavo quei pensieri dalla mia testa, scuotendola e cercando ci concentrarmi su altro.

Nonostante tutto non riuscivo a non chiedermi come stesse, dove fosse, perché avesse perso il controllo.

Sospirai, accendendomi una sigaretta aprendo appena la finestra in quanto l'aria era satura dell'odore delle sigarette spente.
La mia testa girò al primo lungo tiro e dovetti sostenermi per un attimo al davanzale interno della finestra.

Sospirai ancora, volgendo poi le spalle ad essa osservando la mia camera da letto.
Un senso di disgusto mi pervase nel notare come fosse disordinata, distrutta, sporca.

Quando il mio sguardo cadde sulla valigia aperta a terra, capii.
Capii che non potevo più restare lì, non avrei potuto superare questa cosa in questa casa, tutto mi rimandava a lui, tutto mi ricordava dei suoi baci, le sue carezze, il modo in cui mi toccava.
Tutto mi ricordava della rabbia, del suo sguardo, delle mani rotte, del sangue, dei lividi, del controllo, della gelosia.

Non trovavo aggettivo per descrivere la nostra relazione che non fosse Tossica
Lui non aveva tutte le colpe, io stesso non ero un soggetto equilibrato e contribuivo a rendere la nostra relazione sbagliata.

Dovevo andarmene, dovevo uscire e cavermela da solo come avevo sempre fatto.
Perchè lui aveva fatto del male a me, ma io inevitabilmente ne avevo fatto e ne avrei fatto a lui.

Rainy Autumn | Larry Stylinson Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora