18 - Una pausa

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I giorni seguenti, passarono nel silenzio forzato che avevo imposto, senza diritto di replica. Il 6 dicembre, contro ogni pronostico, terminarono i lavori. Concludemmo in netto anticipo sulla tabella di marcia, così, dopo gli ultimi ritocchi, decisi di prendermi qualche giorno di riposo.

“Non ti dispiace Luca… vero? So che avrei dovuto chiedertelo prima… ma non pensavo nemmeno io, che avremmo finito così presto”

“Non preoccuparti Ale… dopo tutte le notti insonni che hai trascorso in quel teatro, te la meriti una bella vacanza!”

“Grazie… sei un tesoro… ne ho proprio bisogno”

“La prima dello spettacolo sarà fra venti giorni… per allora ti voglio di nuovo in forma ok?”

“Beh… non so ancora se verrò… comunque c’è tempo… adesso vado!”

“C’è qualcosa che non va? Non sei mai stata brava a fingere…”

“Potrei dirti che va tutto bene… ma mentirei, e a te non mi va di raccontare balle! Ma non potresti aiutarmi in nessun modo, quindi trovo inutile iniziare il discorso…comunque grazie”

Lo abbracciai, uscii dal suo ufficio e dopo aver preso il cappotto, andai verso l’ascensore.

Luca sbucò con la testa dalla porta “Per quello che può servire… ti voglio bene… lo sai?”

Mi voltai sorridendo e gli mandai un bacio con la mano. “Sei troppo vecchio per me… è inutile che insisti… ma per quello che può servire… ti voglio bene anch’io!”

Mi lanciò contro una matita. Riuscii a spostarmi appena in tempo, dopo di che scoppiai a ridere. L’ascensore arrivò e mentre stavo entrando, sentii la sua voce dal corridoio “Sono nel pieno della mia maturità sessuale… cosa credi!?!”

Prima che le porte si chiudessero, ebbi il tempo di dire l’ultima stupidata “Fai attenzione Luca… è il cuore il primo a cedere… poi tocca agli organi genitali… sarà un degrado lento e doloroso!”

Continuai a sentire le sue risate, in lontananza, mentre l’ascensore mi portava giù.

Arrivata nell’atrio del palazzo mi accorsi che fuori aveva cominciato a piovere.

Ecco… lo sapevo, pensai, e non ho nemmeno l’ombrello. La macchina, come al solito era parcheggiata anni luce dall’ufficio. Forza Ale… fatti coraggio. Uscii dalla porta a vetri guardai il cielo grigio, poi scesi i gradini e mi fermai un attimo sotto la tettoia per raccogliere tutto il coraggio che mi serviva per buttarmi sotto la pioggia.

Cominciai a correre e raggiunsi la macchina, sentivo i vestiti pesanti, chiusi la portiera e accesi il riscaldamento: “Non ho mai detto che lo fosse… ma vuoi davvero negarti la possibilità di sapere se ti sei sbagliata?”. Quella frase continuava a risuonarmi nella testa, con insistenza, con violenza. E se avesse ragione, pensai. E se mi accorgessi troppo tardi di aver preso la strada sbagliata… se… se. Mi sentivo la testa scoppiare, partii senza riflettere, girai a destra e dopo pochi minuti parcheggiai la macchina. Guardai in alto, le luci erano accese. Uscii dall’auto senza preoccuparmi troppo della pioggia, arrivai davanti al portone e suonai.

“Chi è”

“Ciao Diego… sono io… sono Alessia… scusa per l’ora, c’è Gael?”

Un colpo secco fece aprire la serratura.

Mi aggrappai al corrimano e salii le scale. Arrivata davanti alla porta mi venne l’istinto di girarmi e andarmene senza entrare, un ultimo spiraglio del mio istinto di sopravvivenza, di quel misterioso istinto che mi aveva salvato un sacco di volte dal prendere la decisione sbagliata, quel ridicolo, insensato, prepotente e vigliacco istinto che, con molta probabilità, mi aveva fatto fare anche un sacco di stupidate.

UN TANGO CON GAELDove le storie prendono vita. Scoprilo ora