15 - Un attimo

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Persa, nell’intestino di un traffico impazzito, cercai di far mente locale per ricordarmi dov’era quella via.

Poi ricordai. Era la strada parallela a quella dove, io e Barbara, lavorammo per un anno.

Parcheggiai la macchina e cercai il numero 11.

Eccolo. Mi passarono per la mente un’infinità di cose, sensazioni, frasi sconnesse, poi suonai il campanello.

“Marcello… es la tercera vez! Quisiera dormir… Por favor! Qué pasa?”

Rimasi un attimo in silenzio, per quel poco che avevo capito, non mi sembrava il momento giusto, ma ormai ero li.

“Marcello?”

“No… non sono Marcello…  ciao Gael, scusa… se vuoi torno in un altro momento, non pensavo di disturbare…”

“Ale? Sei tu?”

“Si”

Il portone si aprì. Entrai nel corridoio e salii le scale tenendomi aggrappata al corrimano. Mi sembrava di avere un sasso che mi premeva sul petto.

Arrivata davanti alla porta dell’appartamento la trovai socchiusa, presi fiato e la spinsi lentamente.

Mi guardai intorno. Era un bellissimo appartamento, aveva un numero imprecisato di quadri alle pareti e sulla mensole una distesa di libri che mi lasciò a bocca aperta.

Le finestre lasciavano filtrare la luce che illuminava il parquet e un bellissimo pianoforte a coda.

“Arrivo subito… mettiti comoda…”

D’istinto mi andai a sedere al piano. Alzai il coperchio e cominciai a suonare un vecchio pezzo che avevo imparato in terza media, quando, dopo infiniti pianti, convinsi mia madre a farmi prendere lezioni private da un vecchio professore in pensione che abitava nel nostro palazzo.

Era un “Improvviso” di Giovanni Rinaldi, opera 108, numero 3. Avevo sempre amato quel pezzo, più di tutti gli altri, perché nascondeva una passione tra quelle note che mi affascinava.

Lo suonai con trasporto e rimasi stupida di ricordarlo ancora.

Le note risuonavano tra le pareti, rimbalzando nelle mie orecchie e facendo vibrare un piccolo soprammobile di cristallo, appoggiato sulla coda del pianoforte.

“Probabilmente non finirai mai de stupirmi…”

Tolsi subito le mani dalla tastiera e mi voltai di scatto.

Non l’avevo sentito entrare nella stanza. Era in piedi dietro di me, con un paio di pantaloni di tela bianca, indaffarato a passarsi un asciugamano tra i capelli umidi.

“Scusa… volevo solo sentire se mi ricordavo ancora…”

“Direi che hai buona memoria”

“Ciao Gael… scusa se ti ho disturbato…”

“No, scusa tu… prima al citofono, pensavo che fosse Marcello… è tornato indietro due volte… si dimentica sempre tutto… e scusa se te ho fatto aspettare… mi sono reso presentabile…”

“Non fa niente…”

Continuavo a fissarlo. Vederlo a torso nudo mi metteva un po’ in imbarazzo.

“Non hai freddo?”

Probabilmente si accorse del mio imbarazzo perché mi domandò se mi dava fastidio che fosse senza maglietta.

“No… figurati… dicevo così…”

Non dovevo essere stata molto convincente, perché andò in camera e tornò con una felpa verde e righe bianche.

“Vuoi qualcosa? Un caffé?”

“No grazie, non mi piace il caffé… ma un thè lo bevo volentieri!”

“Ok… mi fai compagnia in cucina?”

Lo seguii lungo il corridoio, continuando a fissarlo. Oddio Ale… cosa fai? Gli guardi il culo? Non sapevo più dove buttare lo sguardo… ogni volta mi cadeva sempre nello stesso punto. Riuscii a mettermi in imbarazzo da sola.

Arrivati in cucina rimasi senza fiato. Era davvero stupenda, tutta in muratura con le mattonelle color ocra e un’isola al centro della stanza, dove c’erano i fornelli e un piano di lavoro abbastanza grande per trasformarsi, all’occorrenza, in una pista d’atterraggio.

“Wow… questa si che è una cucina seria!”

Prese da un pensile la teiera e mise l’acqua a scaldare sul fuoco, poi si sedette di fianco ai fornelli e mi guardò.

“Immagino che tu non sia venuta qua per bere un thè…”

“No… infatti…”

Mi avvicinai a lui e tirai fuori, dalla tasca dei jeans, la lettera che mi aveva dato Diego.

Appoggiai la lettera sulle sue gambe e poi cercai di riempire d’aria i polmoni più che potevo.

“Devo ammettere che non mi aspettavo di ricevere una lettera… Saranno quindici anni che non me ne scrivono… ma a parte questo… ti devo chiedere scusa… ieri mi sono comportata in modo schifoso… non volevo offenderti, non volevo mettere in dubbio le tue intenzioni, non volevo dire quello che ho detto… ma a volte vomito parole senza senso… come se dovessi difendermi da tutto… tu sei stato a dir poco perfetto… ecco… forse sono io quella sbagliata… ma cerca di capire… tu non sei una persona normale… tu sei quello che sono andata a vedere al cinema l’anno scorso con mia madre… sei quello che mi capita di vedere sui giornali scandalistici quando vado dal dottore… sei il salvaschermo della mia collega!!!”

“E se io fossi solo un ragazzo incontrato per caso a teatro? Se fossi solo quello che ha fumato una sigaretta con te rischiando l’ibernazione? Se fossi solo quello che ti ha dato un bacio perché era dalla prima volta che ti ha visto che voleva dartelo?... dimmi… cosa cambierebbe?”

Rimasi completamente spiazzata, intontita.

 “No… non so… ma che domande sono… ecco…”

“Dimmelo… cosa cambierebbe?”

Infrangendo, senza consapevolezza o volontà alcuna, la promessa fatta a Barbara, non riuscii a trattenere quella maledetta lacrima che era partita meschinamente, senza preavviso.

Provai a fermarla con la mano ma non riuscivo muovermi.

“Era questo che volevi? Vedermi piangere?”

“No… non era questo che volevo… ma adesso sono in grado de capire quanto sarebbe stupido non insistere…”

Scese dal piano di lavoro, tolse la teiera dal fuoco, si avvicinò allungando una mano e mi asciugò le lacrime, che nel frattempo, stavano solcando indisturbate il mio viso.

Per la seconda volta, in quella fredda mattina di novembre, capii che avevo sbagliato tutto. Che tutto il mio impegno, per difendere quello che restava del mio cuore, si era trasformato in una prigione in cui avevo rinchiuso ogni piccolo sentimento, ogni debolezza, negandomi il diritto d’amare anche a costo di soffrire.

Vidi, tra le lacrime, i suoi occhi, sempre più vicini, poi sentii il calore del suo respiro, il suo profumo, poi di nuovo il sapore delle sue labbra, come la sera prima, come la prima volta.

Chiusi gli occhi e lo baciai come se quella fosse l’ultima cosa che mi restava da fare, come se nient’altro fosse indispensabile alla mia sopravvivenza. Nemmeno respirare, in quel momento, mi sembrava potesse avere più importanza di quel bacio.

E così, senza coscienza, mi ritrovai nel corridoio, poi in sala, poi in camera, poi intenta a togliergli quella felpa verde a righe bianche, che aveva indossato solo un attimo prima e poi a guardarlo litigare con i bottoni della mia camicia. Alla fine non mi restò che aggrapparmi disperatamente al suo corpo sperando di non cadere, sperando di non svegliarmi rendendomi conto che era stato solo un sogno, sperando che il tempo si congelasse così, in quel preciso istante.

UN TANGO CON GAELDove le storie prendono vita. Scoprilo ora