Capitolo 16

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Si svegliò, percependo sotto il delicato viso delle morbide coperte. Udì lo strepitio di un fuoco accogliente ed il suo tepore in viso.
Aprì gli occhi e iniziò, ancora con poca lucidità, a comprendere dove fosse: era in un'enorme camera da letto, pervasa dai colori bruni del legno con il quale era costruita.
Le si avvicinò una figura con un piatto in ceramica tenuto nelle due mani, probabilmente con la paura che potesse cadere.
Era alto e robusto e lei riuscì a scorgerne il viso, ovale e regolare quasi in ogni punto. Gli occhi erano due piccole gemme azzurre e parevano fossero sempre socchiusi, come se in ogni momento stesse analizzando qualcosa e tale effetto era accentuato dal fatto che gli zigomi erano in risalto nel volto imberbe. I lisci capelli castani erano invece sistemati su d'un lato, ordinati e donavano a quell'uomo compostezza.
Indossava una camicia dalle maniche eccessivamente lunghe che aveva i lacci al posto dei bottoni, lasciando quindi intravedere il petto e degli scuri pantaloni aderenti e notò che era scalzo.
L'uomo, dopo aver posato il piatto ancora fumante su di un mobile poco vicino, si chinò sul letto dove ella riposava e le si avvicinò lentamente.
Fu in un primo momento turbata, poiché era sola in quella stanza con quell'uomo che continuava a fissarla e nei cui occhi scorgeva curiosità.
Ebbe paura ma quando la sua mano calda iniziò ad esaminare le ferite, intuì che poteva esser un medico e non ebbe più alcun dubbio quando egli si presentò.
"È stata una fortuna che l'abbia trovata. Sono lieto di averla come mio ospite, sono il dottor Faustus Tanato." e quel nome rimbombò per tutta la stanza.
La ragazza ripercorse in pochi secondi tutti i ricordi circa quella storia per anni narrata dal padre e d'istinto si allontanò.
Il medico intuì le sue intenzioni e non le si avvicinò, per non impaurirla.
"Ciò che lei ha udito è vero e non le racconterò la mia storia poiché son sicuro che tutti conoscano bene ciò che ho compiuto...come se fossi una leggenda, un mito e come loro immortale." e al pronunciare quelle parole i suoi occhi divennero vispi, come animati da un piacere perverso ma in pochi attimi quella luce scomparve e tornò a rivolgersi alla donna con cura e premura.
"Se fossi stato il demonio, come le leggende narrano, io non l'avrei salvata e l'avrei lasciata lì a morire, divorata dalla pioggia." e la donna, seppur ancora turbata, parve convincersi.
Dopo aver riacquistato la calma la ragazza si sedette sul bordo del letto e consumò voracemente, e con un po' di imbarazzo, il suo piatto ancora caldo.
Guardò con più attenzione quel dottore, quasi ne fosse attratta. Come già ebbe modo di notare, era un uomo dalle fattezze marmoree ed il suo corpo, simile a quello di un atleta, era probabilmente il frutto di una ricerca, avente se stesso come oggetto di studio. Era quindi egli stesso il frutto perfetto della natura umana che si prodigava a studiare.
Dopo averlo scrutato, avvicinò la mano d'istinto nel punto in cui fu colpita da quel maledetto ramo e notò con stupore che non aveva più alcun dolore e che era rimasta solo una piccola ferita, quasi impercettibile.
Notò infatti, riposta su di un tavolo poco vicino, una strana forbice, che ancora tratteneva una scheggia di legno avvolta nel sangue, e dei fili con i quali probabilmente egli aveva cucito la sua ferita.
Dopo aver perlustrato quei salvifici strumenti tornò a contemplare il suo salvatore e questi era indaffarato nel cercare qualcosa in un piccolo armadio, posizionato tra due librerie.
Tornò infine dalla giovane con degli indumenti in mano e con garbo glieli porse, intendendo tacitamente che fossero un dono.
"Riposi ancora, sarò lieto d'avere la sua compagnia e quando avrà recuperato le forze torni a casa...avrà sicuramente una famiglia che la attende." e subito una lacrima iniziò a scendere sul volto della donna ed il medico invece sorrise, soddisfatto dalla correttezza della propria deduzione.
"Posso infine chiederle il suo nome?" chiese con la sua ambigua gentilezza.
"Mi chiamo Adélaïde" e arrossì, portando dietro l'orecchio una ciocca dei rossi capelli.

Dopo poche ore i due si congedarono. Quando Adélaïde infine uscì il medico chiuse la porta lentamente e nell'intera struttura piombò il silenzio.
Era di spalle rispetto all'elegante porta della camera ed ebbe modo di osservare il resto della casa; la stanza nella quale aveva riposato era accanto ad un'altra dall'aspetto più cupo poiché la sua porta era consunta e, in alcuni punti, riusciva persino a scorgere delle aguzze schegge di legno sporgenti. Quella vista le fece temere cosa vi fosse oltre e continuò a perlustrare il resto della dimora.
Si trovava in una sorta di balcone posto di fronte allo studio, collegato al piano sottostante attraverso due rampe di scale poste ad entrambi i lati, decorate con delle balaustre in marmo.
Si avvicinò al parapetto e riuscì a vedere l'atrio sottostante, alla cui destra s'ergeva l'imponente portone di ingresso.
Era sbigottita e guardò in alto, verso il soffitto; da questo pendevano lunghe catene che reggevano un imponente lampadario opaco, di cristallo.
Dopo il suo iniziale stupore si diresse verso l'atrio tramite la rampa destra e guardò i maestosi quadri posti come decorazioni su quelle pareti scarlatte che, in alcuni tratti, lasciavano intravedere il grigio della struttura originaria.
L'intera casa era come abbandonata e quando scese si meravigliò nel vedere un maggiordomo che procedeva verso la sua direzione.
Era un uomo basso e minuto, calvo sulla parte superiore del capo, dai radi capelli castani ai lati. Tuttavia era elegante; indossava un completo composto da pantaloni neri e da una giacca dello stesso colore, con due code che dalla schiena pendevano sino all'incavo delle ginocchia. Indossava, sotto l'abito, una camicia bianca ed un gilet scuro, con due taschini, da uno dei quali pendeva una catena d'oro.
La prese e sfilò dal taschino un orologio decorato con lo stesso materiale e si fermò un attimo, per guardare l'ora.
"Prego, mi segua." e la invitò a procedere.
Il maggiordomo aprì l'imponente portone con una forza insolita, data la sua corporatura, e allungò un braccio verso l'esterno, esortandola a uscire.
La ragazza scese i gradini e già l'uomo s'apprestava a chiudere il portone e lei riuscì a fermarlo in tempo.
"La ringrazio buon uomo e ringrazi ancora il dottor Tanato." disse con gentilezza. Il maggiordomo la guardò per qualche secondo, scegliendo le proprie parole con cura.
"Mi chiamo Benjamin e, qualsiasi cosa le dovesse servire, le consiglio di non ritornare in questa casa".
Adélaïde non fece in tempo ad esprimere la propria disapprovazione per quel comportamento insolito ed il portone fu chiuso.
Fu sola, nel mezzo di un vasto giardino ed in lontananza vide un cancello arrugginito, già aperto.
Camminò tra la vegetazione che era in un evidente stato di abbandono; a pochi passi di distanza vi era una statua che rappresentava un uomo robusto, avviluppato da rami spogli.
Sembrava un atleta greco e potè intuirlo da alcuni particolari di rilievo; i calzari che indossava erano adornati ciascuno da un paio di piccole ali e capì quindi che potesse essere una sorta di divinità di quel tempo e nella mano, levata al cielo, portava un bastone avvolto da due serpenti e ciascuno di essi formava una spirale.
Sentì parlare qualche volta di quella divinità, ne era sicura ed in qualche modo percepiva che fosse anche collegata con il mestiere del medico, ma in quel momento non riuscì a intuirne il motivo ed andò via non perdendo ulteriore tempo, notando in cielo le prime luci dell'alba.

FaustusWhere stories live. Discover now