CAPITOLO 15

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Il momento del pranzo era sempre atteso dai ragazzi e dalle ragazze del Wilson Camp. Era considerato un attimo di stacco dall'intenso programma di attività che gli veniva proposto ogni giorno e, inoltre, potevano anche sedersi con chi volevano, senza essere vincolati dalle squadre.

Ormai Faith, Andrew, Grace e Edith facevano gruppo fisso ad ogni pasto della giornata. Loro quattro erano legati da qualcosa che non si poteva spiegare: Faith e Edith da un legame di sangue, Faith e Andrew da un amore taciuto, Andrew e Grace da una longeva amicizia, Grace e Edith come compagne di stanza. Erano un intreccio unico, nato per caso sotto un cielo stellato. Erano un intreccio di stelle. A questo pensava Edith mentre guardava i suoi amici. Vide Andrew che faceva una lieve carezza sul palmo della sorella e le scappò un sorriso. Sarebbe mai riuscita a trovare la sua metà? A trovare una persona che la facesse sentire sé stessa al cento percento?

Chiuse gli occhi per un istante, come per godersi appieno quel momento, e quando li riaprì vide l'ultima persona che avrebbe voluto vedere. E stava venendo proprio verso di lei. «Edith» disse lui, incatenando i suoi occhi in quelli di lei. "Cavolo, quello sguardo."

«Abel» mormorò lei acida. Faith si accorse della situazione e intervenne dicendo: «Lasciala stare.»

«Tranquilla, vengo in pace, voglio solo parlarle» rispose lui.

Edith fece un cenno del capo in direzione della sorella, come a dire "Lascia fare a me".

«Non credo ci sia altro da dire, però a quanto pare tu sei riuscito a trovare un altro pretesto per parlarmi» cominciò Edith.

Abel non rispose, quindi lei continuò: «Tu non sai quanto ho sofferto negli ultimi mesi, e tutto per colpa tua. Adesso sto bene, ma ogni volta che ti vedo il mio dolore riaffiora, la cicatrice si riapre. Non farò lo stesso errore una seconda volta.»

«Errore? Ma cosa stai dicendo? Stavamo così bene insieme, non ricordi? Eravamo felici. Quindi permettimi una seconda...»

Prima che riuscisse a completare la frase, Abel imprecò tutto d'un tratto. Edith si voltò e quello che vide la lasciò sorpresa. Alex, uno dei gemelli, aveva appena rovesciato l'acqua addosso a Abel. «Scusa, fratello, stavi dicendo delle grandi cavolate. Ed è da un po' che sogno di vendicarmi per avermi rubato il letto in alto.»

«Che cazzo» mormorò Abel. Si alzò e se ne andò, lasciando Edith e Alex a guardarsi.

«Perché l'hai fatto?» domandò Edith.

«Quello è proprio un gran coglione» rispose Alex.

Entrambi scoppiarono a ridere, poi tornarono nei rispettivi gruppi e fu come se non fosse mai successo nulla.

Mentre si incamminava per andare a teatro, Alex continuava a riflettere su quello che aveva fatto durante la pausa pranzo: aveva rovesciato il suo intero bicchiere d'acqua sulla schiena di un ragazzo che conosceva a malapena.

Alex aveva già parlato con Abel, perché il fato aveva deciso di metterli nella stessa stanza; già dal primo momento aveva capito con che genere di persona aveva a che fare: uno di quelli che volevano dimostrare di essere chissà chi, ma alla fine non avevano niente di cui vantarsi. Abel era tutto l'opposto di quello a cui Alex aspirava.

Poi c'era quella ragazza: non si ricordava come si chiamasse, ma era sicuro fosse una partecipante del laboratorio di teatro. Era la sorella di quell'altra, la bionda con cui si era scontrato la prima sera. Non era mai stato bravo con i nomi.

«Alex!» chiamò una voce alle sue spalle. Quello era il suo, di nome. Alex si girò e si trovò davanti una delle poche persone che, a quel campo, poteva considerare amico. George non era amico di Alex perché ambiva alla sua posizione sociale, ma solamente perché ammirava la persona che Alex era, al di là di tutte le maschere che indossava per rientrare nella figura che gli altri avevano disegnato per lui.

«Ti vedo assorto... a che stai pensando?» chiese George all'amico.

«Niente di che... è successa una cosa a pranzo che mi ha lasciato... un po' perplesso, diciamo» rispose Alex.

«Se ti ha lasciato così pensieroso non sarà mai solo "niente di che". Dai, racconta, ti ascolto.»

Così Alex raccontò a George dell'episodio di poco prima e lui ascoltò, senza interromperlo nemmeno una volta.

«Sì, lo so che è una cavolata, ma mi ha fatto riflettere...» sussurrò Alex.

Prima che potesse aggiungere altro, George mimò il segno del silenzio con la mano, appogiandosi il dito sulle labbra.

«Senti di aver fatto la cosa giusta?» gli chiese.

Alex annuì, perché almeno di quello era convinto.

«Perfetto» ribatté l'altro. «Adesso andiamo a teatro.»

George s'incamminò, lasciandosi alle spalle un Alex che si domandava: "Come faccio a capire qual è la cosa giusta da fare?"

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