CAPITOLO 19

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Noah era intento a consumare la sua colazione con molta tranquillità, quando Alex si sedette accanto a lui. Suo fratello era insolitamente silenzioso e quel mutismo non era affatto da lui: di solito arrivava la mattina con un sorriso stampato in viso e una parlantina così fitta che Noah non aveva nemmeno quando era al completo delle sue energie. Non l'aveva neanche salutato... c'era qualcosa che non andava, Noah ne era certo.
«Il gatto ti ha mangiato la lingua?» chiese Noah cercando di assumere il tono meno freddo possibile, anche se, di prima mattina, era quasi impossibile.
«No, è solo che...» mormorò Alex.
«Solo che...» lo incalzò il fratello.
«C'è un mio compagno di stanza, Abel. Ieri sera ha dato di matto e ha detto delle cose davvero brutte, su di me... e su Edith. Non riesco a capacitarmi di come una persona possa essere tanto crudele, tanto spietata.»
Nel raccontarlo, gli occhi di Alex si fecero lucidi e Noah provò un forte impulso di andare da questo "Abel" e spaccargli il naso per tre motivi principali: per prima cosa, l'unico che poteva insultare suo fratello era nientemeno che lui stesso; secondo punto, non conosceva benissimo Edith, ma sapeva per certo che era una ragazza con un gran cuore; e, ultimo motivo, aveva sempre voglia di spaccare il naso a qualcuno e quella sembrava essere l'occasione giusta.
«Alex, non ascoltarlo. È solo un coglione quello, dovresti averlo capito» lo rassicurò Noah, interpretando il suo ruolo da fratello maggiore di tre minuti.
«Sì, ma...» tentò di dire Alex, ma Noah lo stupì sporgendosi verso di lui e circondandogli le spalle con un braccio, nel goffo tentativo di quello che poteva dirsi un abbraccio.
«Da quando tutto questo affetto?» domandò Alex.
«Da mai» rispose Noah. «Prima e ultima volta che ti abbraccio, voglio metterlo bene in chiaro.»
Alex rise, ribattendo: «Dici sempre che è l'ultima volta, ma alla fine non lo è mai.»
Ora che Alex stava meglio, c'era un'unica cosa da fare: parlare con Edith per scoprire di più riguardo a quell'Abel.

Nonostante fossero nella stessa squadra, durante la mattinata Noah non riuscì ad avere un momento per parlare con Edith, perché, come sempre, c'erano una miriade di attività da svolgere; solitamente la mattinata era divisa in una prima parte dove ogni squadra lavorava per conto proprio e un secondo momento dove le squadre si sfidavano nei giochi più assurdi che la mente di Jeff riuscisse a concepire. Avrebbe potuto parlarle a pranzo, ma non voleva disturbarla mentre era in compagnia del suo gruppo, quindi decise che la sua occasione di agire si sarebbe presentata nel breve lasso di tempo libero che avevano tra il pranzo e i laboratori pomeridiani.
Non sapendo ancora bene cosa le avrebbe detto, mentre si alzava dal tavolo del pranzo le si avvicinò chiedendole: «Edith, posso parlarti un attimo?» Lei sul momento rimase sconvolta, non si aspettava assolutamente che Noah volesse parlare con lei. Si chiese cosa volesse dirle, mentre la sua voce diceva: «Certo.»
I due rimasero lì qualche minuto, aspettando che il padiglione si svuotasse del tutto, poi uscirono anche loro. «Di che si tratta?» domandò Edith, che in quei pochi minuti era stata divorata dalla curiosità di sapere cosa avesse di tanto importante da dirle. Riguardava il teatro? qualcosa sulla loro squadra? Alex? Andrew? Grace? No, aspetta, l'ultima era praticamente impossibile, visto che Edith non aveva mai visto i due rivolgersi la parola.
«Ehm... stamattina Alex mi ha parlato di una cosa» iniziò lui.
OK, allora si trattava di Alex. Ma lei cosa c'entrava?
«Ieri sera un suo compagno di stanza ha detto delle cose non molto carine, per così dire...»
Perché avrebbe dovuto saperlo?
«Su di lui e, beh... su di te» continuò Noah con un leggero tremolio nella voce.
Su di lei? Chi poteva mai essere? Cercò di dire qualcosa, ma improvvisamente una luce si accese nella sua mente. No, non poteva essere...
«Si chiama Abel» concluse Noah.
«No» rispose solamente Edith.
«Lo conosci?» domandò Noah, anche se poteva intuire la risposta.
Edith aveva un nodo che le bloccava la gola, e quel nodo si chiamava "Abel". Sentire il suo nome, o anche solo pensarlo, le provocava una sensazione di smarrimento che non riusciva a spiegare. Quella sensazione, con il passare del tempo, si era attutita sempre di più, ma quello che le aveva riferito Noah l'aveva amplificata in maniera esagerata.
No, non ce l'aveva con Noah, lui aveva fatto più che bene a dirglielo, perché significava che in un modo o nell'altro teneva a lei; perciò sentiva di dovergli almeno una spiegazione.
«È il mio ex» mormorò Edith a fior di labbra.
Non si aspettava nessuna reazione precisa da parte di Noah, ma immaginava lo stesso che avrebbe manifestato un accenno di stupore. Invece, il niente più totale. Da lui doveva aspettarselo, ma più lo guardava più non riusciva a decifrare la sua espressione. Si limitò ad alzare un sopracciglio e affermare, a denti stretti: «Che gran pezzo di merda.»
«L'hai descritto perfettamente» ribatté Edith,  cercando di mascherare le lacrime che spingevano per uscire con una risata ben poco credibile.
Noah, da sempre attento osservatore, se ne accorse e le disse: «Piangi pure, non sono qui per giudicarti.»
Edith non si aspettava di certo un tale invito, ma le lacrime le stavano riempiendo le palpebre e iniziavano ad offuscarle la vista, quindi decise che doveva per forza lasciarle andare.
Pianse tutte le lacrime che aveva represso per quei mesi, in cui si era convinta di stare bene quando in realtà non era così. Proprio in quel momento, tra un singhiozzo e l'altro, sentì il bisogno di raccontare tutto a Noah: e così fece. Lui la ascoltò senza mai interromperla, senza mai fare commenti inopportuni.
«Io ero follemente innamorata di Abel, gli avevo dato tutto di me, gli avevo dato il mio cuore, e lui sembrava capace di prendersene cura. Mi faceva stare bene, mi faceva sentire amata come mai prima, ma quel giorno è riuscito a rovinare tutto, a rompere il mio cuore in un milione di pezzi e a calpestarli, uno per uno. E, quando l'ho rivisto, lui diceva di volerlo aggiustare, ma per farlo ci vogliono tempo e pazienza, mentre lui ha solamente un rotolo di nastro adesivo. E pretende di aggiustarlo con quello, ma non si rende conto che si romperebbe subito dopo.»
Ormai il volto di Edith era completamente rigato di lacrime e i suoi occhi erano gonfi di pianto, ma almeno si sentiva libera. Libera da tutte quelle emozioni che la tenevano prigioniera di sé stessa, e di lui.
«Non sono bravo con le parole,» le disse Noah «ma sono felice che tu ti sia sfogata. Però adesso asciuga quelle lacrime, alza il culo e cammina a testa alta. E, appena vedi Abel, dagli un bel pugno da parte mia.»
Stavolta Edith rise di cuore, perché sapeva di aver trovato un amico. E se, come dice il detto, "Chi trova un amico trova un tesoro", lei in quel momento si sentiva la persona più ricca dell'universo.
«Sei proprio uno stronzo, Noah Harrison» gli disse, anche se in cuor suo sapeva che era tutto il contrario.
Anche lui lo sapeva, che non era vero, perché, per la prima volta, si sentiva come se fosse stato davvero d'aiuto. Ed era una sensazione bellissima.

Quella sera Edith decise di raccontare ai suoi amici l'esperienza di quel pomeriggio e di come Noah l'avesse aiutata. «È stato davvero gentile, non me lo sarei mai aspettata da lui» concluse lei. «Anche se non sembra così, nasconde molto dietro a quell'espressione fredda e indecifrabile» concordò Andrew. Grace, che era sembrata interessata per tutta la durata della conversazione, intervenì sbuffando: «Sì, come no», ma dentro di sé aveva una voce che diceva "Forse è davvero così, una brava persona..."
Per tutta la cena rimase con questi pensieri, chiedendosi se Noah Harrison potesse davvero avere delle emozioni.

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