CAPITOLO 37

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Era giunto al termine il pomeriggio del giorno seguente e la serata che avrebbe concluso tutta l'esperienza al campo era ormai alle porte. C'era chi era già nostalgico prima ancora che il campo finisse, chi era convinto che la propria squadra avrebbe vinto, chi non vedeva l'ora di tornare a casa e chi, come George, era terribilmente ansioso per lo spettacolo di quella sera. Continuava a camminare avanti e indietro per le strade del campo, cercando di calmarsi e di allontanarsi sempre di più dalla zona del palco, ma non c'era niente da fare: i suoi passi lo portavano sempre davanti ad esso. E lui lo guardava alzarsi davanti a sé: non era molto alto, ma gli sembrava enorme. Gli sembrava, però, ancora più enorme tutto lo spazio che c'era davanti al palco, e il pensiero di tutte le persone che quella sera l'avrebbero occupato.
Non sapeva se ce l'avrebbe fatta, lui non era capace di stare davanti a così tante persone. Chi gliel'aveva fatto fare? Lui, uno tra tanti, recitare insieme a persone molto più brave di lui. Ad esempio Andrew, che aveva la recitazione nel sangue. Oppure Edith, che aveva una delle voci più belle che avesse mai sentito. O ancora i gemelli, che suonavano i loro strumenti in maniera impeccabile. Lui invece che cosa aveva? "Niente", si rispose da solo. Non aveva niente di speciale, tutto qui.
Per quanto cercasse di girarsi nella direzione opposta e andarsene, qualcosa dentro di lui lo attirava verso il palco; fu sempre quel qualcosa non ben definito a portarlo a salire su di esso. Si sentiva incredibilmente sbagliato ad ogni gradino, ma non ci badó e decise di arrivare fino in fondo. Non appena fu al centro del palco, George chiuse gli occhi, immaginando la scena di quella sera: non solo le immagini, ma anche i rumori, gli odori, soprattutto le emozioni. Provò il suo discorso a mente, ormai lo sapeva meglio del suo nome e cognome, ma, non appena tentava di trasformarlo in parole, qualcosa lo bloccava. Decise di non provare oltre, ma, mentre stava per scendere dal palco, una voce lo chiamò: «George!»
Non serviva voltarsi, l'avrebbe riconosciuto in mezzo a mille persone. George scese le scale quasi di corsa per andare incontro ad Alex, che si era fermato davanti al palco. Poi, però, si ricordò: non doveva avere reazioni esagerate, loro due erano solamente amici.
«Ti va di fare due passi?» domandò Alex, e George annuì.
Non appena furono abbastanza distanti dal palco, Alex se ne uscì con una semplice parola: «Scusa,» a cui poi aggiunse: «scusa per tutto, davvero. So che ufficialmente abbiamo già risolto, ma sento che manca ancora qualcosa. Mi manchi tu, mi manca il vecchio George. Non ce la faccio più a pensare di aver rovinato tutto.»
Alex tratteneva a stento le lacrime, ma non voleva farle uscire, anzi non poteva farle uscire. George se ne accorse e di istinto lo abbracciò. Non sapeva esattamente cosa significasse quell'abbraccio, sapeva solo che gli piaceva; ma così non poteva essere: loro due erano solo amici, doveva ficcarselo bene in testa.
«Non pensi mai a cosa faremo dopo il campo? Cioè, dove finiremo noi e tutti i nostri amici?» domandò Alex con nonchalance dopo un momento di silenzio, nel quale avevano ripreso a camminare.
Sempre quella parola: "amici". Sembrava essere ovunque, non lo lasciava in pace neanche un secondo.
«Penso che torneremo tutti alle nostre vite» rispose George.
«Io non voglio che sia così. Cioè, io sto bene con voi, non voglio tornare a tutto il resto» disse, mimando con una mano quello che aveva definito "tutto il resto", ma senza aggiungere nulla di più.
«E secondo te io lo voglio? Dovrò tornare a scegliere tra mia madre e mio padre, non penso sia facile» disse George, ironizzando sulla questione.
«Ah, sì, scusa, hai ragione. Però non devi preoccuparti, se non sai scegliere puoi sempre venire da me» ribatté Alex ridendo.
George avrebbe dovuto ridere, ma non riuscì a farlo, perché quella che Alex considerava una battuta, lui avrebbe voluto con tutto sé stesso fosse la verità.
«Sì, non so, è che sembra tutto così difficile» mormorò George, senza riferirsi a qualcosa in particolare. Si sarebbe aspettato che Alex ribattesse con una delle sue solite battute, come di solito fanno gli amici, e invece fece l'ultima cosa che si aspettava che facesse: gli prese la mano. Senza un motivo, senza una parola.
George avrebbe dovuto esserne felice, anzi una parte di sé lo era eccome, ma l'altra sentiva che c'era qualcosa di sbagliato in quel gesto. No, non di sbagliato, piuttosto qualcosa che mancava. Perciò, senza un apparente motivo, ma con dentro di sé mille valide ragioni, George si fermò. Non lasciò la mano di Alex, quello mai, ma si fermò. Alex stava continuando a camminare, ma, quando si accorse che l'altro indugiava, si fermò a sua volta, voltandosi.
«Ehi, George, è tutto a posto?» gli chiese. Sembrava così calmo agli occhi di George, come se non capisse. Come se non capisse tutta lo schifo che in quel momento si sentiva addosso, quando invece avrebbe dovuto essere il momento migliore della sua vita.
«No, non lo è» rispose soltanto.
«Lo sai che puoi dirmi...»
Alex non fece in tempo a finire la frase che George si decise a parlare di tutto quello che aveva sentito negli ultimi giorni e continuava a sentire anche in quel momento. Decise di essere sincero.
«Se c'è una cosa di cui non ti ringrazierò mai abbastanza è di avermi fatto capire che non devo tenermi i miei problemi dentro, che non devo fingere di star bene. Quindi ora parlerò, e se non ti piacerà quello che dico, sii almeno cosapevole che mi hai insegnato tu a parlare di queste cose. Alex Harrison, io non ti capisco. Non ti capisco dal primo giorno che ci siamo visti, durante quel gioco di conoscenza. Non ti ho capito quando hai iniziato a fare così l'amico con me, anzi a volte sembrava qualcosa di più. Non ti ho capito quando hai baciato quella ragazza, come se nulla fosse. Non ti ho capito quando mi hai chiesto scusa, anche se poi non è cambiato nulla. Non ti ho capito quando sei venuto a cercarmi poco fa. Ma soprattutto, non capisco perché mi hai appena preso la mano. Non che non mi vada bene, tutto il contrario, ma tu continui a farmi credere che siamo solo amici, poi dal nulla mi prendi la mano e non capisco più niente. Io non voglio essere usato, se tu mi vuoi nella tua vita non voglio fare solamente la comparsa. Voglio essere uno degli attori principali, con un ruolo ben definito. Tutto qui. Quindi, per favore, rispondimi: noi due, io e te, George e Alex, cosa siamo?»
Alex rimase stupefatto da quella confessione, ma al tempo stesso George aveva trovato il coraggio di dire tutto quello di cui lui non era capace. Quindi decise di prendere ispirazione da quel coraggio e tentare di dire anche lui qualcosa. Qualcosa che si teneva dentro ma che era pronto a condividere con la persona che aveva davanti. Senza lasciargli la mano, prese un bel respiro per poi cominciare: «Il problema è che non so rispondere. Anzi, in realtà lo so eccome, da un po' di tempo tra l'altro, ma ho paura. Paura che ammettendo la realtà tutto quello su cui si basa la mia persona cada a pezzi. Da quando ne ho memoria mi sono sempre sentito costretto a vivere secondo determinate regole. Se Noah è il gemello timido, io devo essere quello estroverso. Se Noah è il gemello più che felice di chiudersi in casa, io devo essere quello festaiolo. Se lui non ha mai toccato una ragazza in tutta la sua vita, io devo averne il doppio, per compensare ciò che lui non fa. E ormai è diventato quasi un gioco: mi diverte provarci con tutte, sorridere a ogni ragazza che passa. Tutto questo per rispettare tutte quelle etichette che mi sento appiccicate senza motivo. Io non sono così, tu lo sai più di tutti, ma più provo a mostrarmi per quello che sono, più capisco che il mondo fa male, e perciò mi nascondo nuovamente dietro quella maschera. Io ci provo, cazzo, a essere chi sono. Ma è così fottutamente difficile, e tutto questo mi fa paura.»
Alex si bloccò, guardando negli occhi George, il quale gli pose silenziosamente la stessa domanda di poco prima.
«Che cosa siamo noi?» ripeté Alex, soprattutto a sé stesso. «Sai, non voglio darci un'etichetta, non di nuovo. Quindi, che ne dici se lo scopriamo insieme?»
Alex sorrise, un sorriso che non appariva sul suo viso da molto tempo; poi, prima che George potesse realizzare cosa stava succedendo, si avvicinò quel poco che bastava per colmare la distanza tra di loro e lo baciò.
Quello non fu per Alex un semplice bacio, non fu come quello con Brittany o con tutte le ragazze prima di lei: fu qualcosa di vero, di sentito. Più le sue labbra toccavano quelle di George, più sentiva il bisogno di averlo vicino. Voleva che quel momento durasse per sempre, avvolto dalle ombre che il tramonto gettava nel bosco.
A quel primo bacio incerto, ne seguirono altri, più decisi, ma con le stesse emozioni del primo. A un certo punto entrambi persero il conto. Quando finalmente Alex si staccò, si guardarono negli occhi, complici, mentre George diceva: «Ancora uno, dai» e Alex acconsentiva, perché, in fondo, è quello che anche lui desiderava.
«Io non so cosa siamo,» disse Alex: «ma so che mi piaci. Tanto.»
«Tantissimo» disse George.
«Tantissimissimo.»
«Tantissimissimissimo.»
Continuarono così, mano nella mano, mentre si allontanavano tra gli alberi, fregandosene dell'imminente serata. Non sapevano cosa sarebbe successo dopo, ma non importava. Se qualcuno avesse chiesto loro cosa fossero, avrebbero risposto "felici".

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