CAPITOLO 18

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Faith continuava a pensare alla serata precedente e ciò le provocava un turbinio di emozioni che non sapeva definire.
Provava una vera e propria sensazione di ribrezzo verso il modo in cui si era comportato Ray, ma, in fondo, se l'era meritato, no? Era stata lei che non era riuscita a capire le intenzioni di Ray prima che lui potesse rovinarle un momento tanto importante quanto il suo primo bacio. Dall'altro lato, invece, c'erano i sentimenti verso Andrew, un qualcosa che non aveva mai provato prima d'allora e cui non riusciva a dare un nome.
C'era un solo modo grazie a cui sarebbe riuscita a buttar fuori tutta quella tempesta di emozioni che le affollava la mente: il disegno. L'arte era la sua più grande passione sin da quando era piccola. L'arte dava un senso a tutto quello che nella sua vita non ne aveva.
Al contrario della maggior parte dei suoi amici, lei non aveva scelto il laboratorio di teatro, bensì quello di disegno, proprio per il fatto che era una cosa che la appassionava davvero: senza l'arte lei era vuota, inutile. Non aveva legato molto con i suoi compagni di disegno, come Edith le aveva raccontato era stato con il gruppo di teatro, ma non le importava. Tutto ciò di cui aveva bisogno per stare bene erano un foglio e una matita. Il laboratorio era per la maggior parte del tempo individuale: l'intero gruppo stava realizzando delle opere a tema "campo estivo" per allestire una mostra l'ultimo giorno.
«Ciao Faith» la salutò Steven, il sorvegliante del laboratorio. A dire il vero, Faith adorava Steven e quel suo modo di farti sorridere sempre. Si sedette a quella che ormai era diventata la sua postazione, tirò fuori il suo materiale e cominciò, facendosi guidare dalle forti emozioni che sentiva in quel momento.
Solitamente disegnava prima a matita per poi colorare, ma quel giorno non aveva un soggetto preciso da disegnare, non c'era bisogno di prestare attenzione ai dettagli, perché il suo unico bisogno era di dare colore alle sue emozioni.
Afferrò la matita nera. Il nero le ricordava Ray e tutte quelle emozioni negative che pensare a lui comportava. Nella sua vita piena di colori, lui era il suo nero: non riusciva ad associargli un colore se non quello. Tracciò dei cerchi confusi, uno dopo l'altro, poi posò la matita sul tavolo. Tirò un sospiro di sollievo: si sentiva incredibilmente meglio. Poi prese una matita azzurra, quello che credeva fosse il colore più adatto ad Andrew. Azzurro come il cielo, azzurro come il mare e di tutte quelle altre cose immense, senza fine, che ti mettono tranquillità. Prese poi quella gialla, per buttare fuori tutta la rabbia che provava nei confronti di se stessa. Per essersi fatta trascinare, per essersi rovinata il primo bacio. "Nessuno osa toccare la mia ragazza di stelle", le aveva detto Andrew la sera prima, ma se lo meritava davvero? Si meritava davvero tutte quelle attenzioni da un ragazzo così speciale? E mentre i pensieri si affollavano nella sua mente, i colori sul foglio si susseguivano, uno dopo l'altro. Rosso, verde, viola, arancione, un colore per ogni emozione di cui era prigioniera. Tracciava tratti decisi sul foglio, sentiva il rumore delle matite che sfregavano sulla carta. Era completamente immersa nell'arte, nei colori, nelle forme. Un colore dopo l'altro, una forma dopo l'altra, un pensiero dopo l'altro. In basso a destra pose la sua firma: Faith Morgan.
«Finito» sospirò Faith non appena si sentì completamente svuotata da tutti i pensieri. Non sapeva esattamente per quanto avesse disegnato, potevano essere stati due minuti come due ore. Guardò la sua opera e non sapeva che provare: su quel foglio erano racchiuse tutte le sue più intime emozioni. Non rappresentava qualcosa di preciso, nessun soggetto: erano solo colori e forme disposte senza un ordine apparente.
«Faith... è bellissimo» sussurrò una voce alla sue spalle. Lei si voltò e si trovò davanti il viso calmo e rilassato di Steven, i lunghi capelli raccolti in una coda di cavallo. «Grazie... ma non è niente di che» balbettò lei, mentre le sue gote assumevano un colore rosato.
«Cosa rappresenta?» le domandò lui.
«Emozioni» rispose lei tutto d'un fiato, come se la parola stessa scottasse.
«Che tipo di emozioni?» chiese Steven, gli occhi che brillavano d'orgoglio.
«Di tutto. Rabbia, rancore, rimorso, senso di colpa. E anche amore. Tanto amore» rispose Faith.
«È semplicemente bellissimo» le disse Steven. «Ho pensato sin dal primo momento che fossi talentuosa, ma non avrei mai pensato che lo potessi essere così tanto.»
Lei si sentiva davvero realizzata, per lei l'arte era sempre stata una valvola di sfogo, non un qualcosa che potesse piacere agli altri. «Guardate l'opera di Faith, ragazzi» disse Steven rivolto all'intero laboratorio di disegno. «Ecco cosa intendo, quando vi dico di farvi guidare dalle vostre emozioni» aggiunse poi. Un applauso spontaneo, di onesta ammirazione, si levò dall'intera aula e Faith si sentiva veramente apprezzata, mentre i suoi compagni continuavano a sommergerla di complimenti.
A fine lezione, mentre usciva dall'aula con un grande sorriso stampato in volto, Steven la fermò per annunciarle: «Mi impegnerò affinché la tua opera abbia un posto speciale nella mostra finale. Che titolo le diamo?»
Faith stava per rispondere "Emozioni", ma quella parola le morì in gola prima che potesse essere pronunciata. Guardò il suo disegno e non riuscì a non notare la grande macchia azzurra che ne occupava una gran parte: Andrew.
«"Ragazza di stelle"» rispose Faith, fermamente convinta della sua risposta.

Quel pomeriggio Maggie aveva portato a teatro una prima bozza della sceneggiatura, anche se tutti l'avevano giudicata ben più di una bozza. «Maggie è davvero talentuosa, vero?» domandò quella sera Alex a Dylan, un suo compagno di stanza, nonché amico del laboratorio di teatro. «Hai ragione, le sue parole ti arrivano dritte al cuore» concordò lui.
«Anche tu non sei da meno, eh» gli disse Alex, dandogli un'amichevole pacca sulla spalla. Dylan era, infatti, uno dei due chitarristi del gruppo, insieme a Logan, ma a differenza di quest'ultimo si sarebbe esibito da solo. Logan, invece, avrebbe suonato con una voce di accompagnamento.
«Grazie, ma non sono niente di che, io suono per passatempo più che altro. Mentre quell'altra, la cantante, canta davvero con il cuore. Quando ha cantato oggi mi stavo emozionando, sul serio.»
«Intendi Edith?» chiese Alex. A quel nome un paio di orecchie in quella stanza si tesero.
«Sì, esatto, lei» confermò Dylan.
«State parlando di Edith?» si inserì una voce che, fino a quel momento, era stata solamente in ascolto.
«Sì, qualche problema?» chiese Alex, ricordandosi dell'episodio di qualche giorno prima.
«Altroché» rispose la voce che, se non si fosse capito, apparteneva ad Abel.
«Ovvero?» domandò Alex cercando di mantenere la calma.
Abel sembrava non avere affatto la sua stessa intenzione: «Mi vuoi proprio provocare, inutile figlio di papà? Tu credi di conoscere Edith, ma non sai un bel niente di lei. Ripeto: un bel niente» sbraitò lui avvicinandosi ad Alex. Lui cercò di dire qualcosa, ma l'altro continuò prima che potesse avere tempo di ribattere.
«Ti credi tanto importante, pensi di poter ordinare agli altri cosa fare solo perché hai due soldi, invece sei un poco di buono, ma sappi che Edith, la mia Edith, non si fa ingannare da cose superficiali come il denaro. Puoi avere ai tuoi piedi tutte le ragazze che desideri, con quella bella faccia che ti ritrovi ti basta rivolgergli un sorriso e sono tue; ma non con Edith, lei non la avrai. Lei è mia. E anche se lei dice di non volermi, le farò cambiare idea.»
Alex detestava quel ragazzo, era riuscito a portarlo al limite della sopportazione. Era sul punto di rispondergli male, quando pensò: "Se faccio una scenata, mi metto al suo livello e passo dalla parte del torto. Meglio ribattere con calma."
Accantonò quindi la rabbia e rispose ad Abel: «Punto primo, grazie per il complimento, so che sono meraviglioso. Punto secondo, io non ci sto affatto provando con Edith. Punto terzo, il più importante, Edith non è tua. Ficcatelo bene in testa.»
Abel rimase sorpreso dalla calma con cui Alex l'aveva affrontato. Non sapeva come ribattere, quindi si limitò a dire: «Tu non sai un bel niente» ed uscì dalla stanza.

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