CAPITOLO 35

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Il sabato era il giorno delle prove generali, l'ultimo giorno prima del grande spettacolo, a cui i ragazzi avevano lavorato duramente. Quello spettacolo ne aveva passate di tutti i colori, in particolar modo negli ultimi giorni, ma ogni volta si era rialzato più forte di prima. Tutti i ragazzi del corso erano determinati a dare il massimo nella serata seguente, per mostrare a tutti la meraviglia che erano riusciti a creare in così poco tempo.
Tutto questo Janice lo sapeva benissimo. Era orgogliosa dei suoi ragazzi e perciò decise, nel bel mezzo delle prove, di fare un discorso a tutti loro. A tutti quei ragazzi e a quelle ragazze che erano riusciti a entrarle nel cuore in così poche settimane.
«Ragazzi e ragazze, un po' di attenzione» esclamò, durante la pausa tra la seconda e la terza scena. I ragazzi, che stavano finendo di preparare il palco per la scena finale, cessarono tutte le loro attività per dirigersi verso la coordinatrice del loro corso. Le volevano tutti un gran bene, tanto quanto lei ne voleva a loro.
«So che forse non è il momento più opportuno per dirvelo, ma vi stavo guardando, così concentrati, determinati, fantastici. Questo non è solamente un corso di teatro del campo estivo, ma è un corso di vita, secondo me. Ognuno di voi ha imparato qualcosa in più su sé stesso, sulla vita, e io sono così orgogliosa di questo, ancora di più di quanto lo sia riguardo allo spettacolo che abbiamo realizzato. Non conta il risultato, ma come ci si arriva.»
Un applauso si levò dal gruppo, ma Janice non aveva ancora finito.
«Ma non sono l'unica ad essere orgogliosa di voi e di quello che siete riusciti a creare. I vostri amici qua al campo, tutti gli altri educatori, Jeff compreso, saranno orgogliosi di voi non appena vi vedranno salire su quel palco. E sono convinta che anche i vostri genitori, nonni e parenti lo saranno quando glielo racconterete.»
Nel sentire quell'ultima frase, alla parola "genitori" uscire dalle labbra di Janice, Alex si bloccò.
«Come sai che tutti noi lo racconteremo ai nostri genitori?» chiese, senza neanche accorgersi di averlo detto ad alta voce.
«Beh, una cosa così bella non può non essere raccontata» rispose Janice, pensando che quella fosse una delle sue solite battute idiote.
«Ma se i nostri genitori non volessero ascoltarla?» sbottò Alex, per poi voltarsi di punto in bianco e allontanarsi. Tutti rimasero spiazzati: non si aspettavano una tale reazione, tantomeno da Alex. Janice era ancora più sconvolta: si sentiva in colpa, nonostante non sapesse cosa avesse scatenato esattamente quella reazione in Alex. Si voltò verso Noah, lanciandogli una domanda silenziosa.
«Non preoccupatevi, vado io da lui. Voi continuate» rispose frettolosamente, per poi allontanarsi in direzione di Alex.
Per fortuna Noah era solito camminare velocemente, perciò riuscì a scorgere la chioma del fratello quasi subito, raggiungendolo a grandi falcate. Lo prese per le spalle e lui sussultò: «Che cazzo vuoi, Noah?»
«Sono qui per te. Dimmi cos'hai» ribatté lui, completamente pacato. Alex era sul punto di voltarsi e andarsene, ignorando Noah e tutto il resto. Quell'accenno ai genitori, per quanto insignificante, l'aveva colpito, riaprendo ferite che non si erano mai veramente rimarginate.
Doveva ammetterlo, non era arrabbiato solo per quello, era arrabbiato in generale. Arrabbiato con sé stesso, arrabbiato con il mondo, per tutto quello che in quei giorni stava succedendo e lo stava mandando fuori di testa. Si era ritrovato a riflettere per la prima volta su chi voleva essere, e questo lo faceva arrabbiare, perché non lo sapeva. C'era una cosa che sapeva, però: se non avesse tirato fuori tutte quelle emozioni, non ce l'avrebbe fatta. E perciò così fece.
«"Sono qui per te", sì, certo» disse lui, scimmiottando il fratello. «Dici sempre così, ma alla fine non ci sei mai. Sei sempre perso nel tuo mondo, ne esci fuori solo quando ti pare per dare quelle tue risposte del cazzo, ma poi ci rientri. Ti senti tanto importante a giocare il ruolo di quello misterioso? Come ci si sente a essere il gemello perfetto, quello con i capelli sempre a posto, una risposta a tutto, una media impeccabile, senza niente che gli si possa contestare, eh? Mi sono stancato di passare sempre in secondo piano. Quando torneremo a casa dal campo e racconteremo a mamma e papà di queste settimane, sempre se saranno a casa quando torneremo, ascolteranno solo te: ascoltano sempre solo te. Il figlio modello, quello che ha iniziato a suonare il violino prima ancora di imparare a scrivere, che si è dimostrato impeccabile come sempre nella sua performance. Mentre io non valgo niente, con il mio clarinetto da quattro soldi, e un pezzo difficilissimo che tra l'altro non suono da solo. Tutte le attenzioni le danno a te, e tu ti diverti a riceverle, di' la verità. E poi hai il coraggio di venire qui a dirmi "sono qui per te". Stai zitto e vattene, per favore.»
«Alex, calmati. Tutto quello che dici non è affatto vero, non me ne frega niente di quello che pensano i nostri genitori, lo sai» rispose Noah, cercando di mantenere la calma. Sapeva che Alex non pensava davvero quello che diceva, almeno non totalmente, ma le sue parole gli diedero da pensare. "Gli altri mi vedono veramente così?" si chiese, ma non disse niente.
«Almeno abbi la decenza di non mentire davanti all'evidenza» obiettò Alex, ormai completamente fuori di sé.
«Come potrebbe mai importarmi di due persone che vedo se va bene una volta al mese solo per una cena, nel bel mezzo della quale puntualmente ricevono una chiamata di lavoro e se ne devono andare?» domandò Noah, alzando il tono di voce. Cercò di avvicinarsi al fratello, ma non appena lo fece, l'altro lo respinse brutalmente. Alex non era mai stato un tipo manesco, in diciassette anni non aveva mai osato toccare neanche una mosca.
«Non voglio più ascoltare una sola parola di quello che esce dalla tua bocca» annunciò Alex, per poi voltarsi e andarsene.
Noah rimase lì, a pensare; il rumore del mare, nel frattempo, era sovrastato da quello di una tempesta.

Alex si allontanò il più velocemente possibile, la testa piena di pensieri che cercavano di uscire. Senza neanche accorgersene, le sue gambe lo portarono verso i portici. A quell'ora erano deserti: tutti erano occupati nelle loro attività e negli ultimi preparativi per la serata finale. Si sedette, la testa tra le mani. Cercò di pensare a qualcosa di bello, qualunque cosa, ma non gli veniva in mente assolutamente nulla. Nella sua testa c'erano solo rabbia, tristezza, nostalgia e altre emozioni non esattamente identificate.
"Non c'è niente da fare," pensò: " i miei genitori preferiranno sempre..."
«Alex» sentì.
«No, Noah» si rispose.
«A meno che io abbia le allucinazioni, tu sei Alex, non Noah» gli disse una voce. Alex alzò la testa per vedere chi gli stesse parlando.
«Oh, ah, Maggie, non intendevo...» provò a dire, ma era troppo complicato da spiegare. Temeva che se le sue paranoie fossero uscite dalla sua testa, si sarebbero dimostrate meno vere, infondate. E questo non poteva succedere.
«Come stai?» gli chiese semplicemente, sedendosi accanto a lui.
Alex ci pensò un attimo, come se stesse analizzando se fosse più conveniente mentire o dire la verità. Scelse la seconda, perché sapeva che Maggie non l'avrebbe giudicato, in nessun caso.
Inoltre, aveva un dannato bisogno di parlare con qualcuno, e lei era il primo essere umano che incontrava dopo la lite con Noah.
«Non... non bene» rispose.
«Perché te ne sei andato? Janice ha detto qualcosa di sbagliato?»
«Sì e no, cioè, in questi giorni sto pensando molto. Sto mettendo in discussione molti aspetti di me stesso e questo mi rende così dannatamente vulnerabile, non so se capisci cosa intendo. Se qualcuno colpisce nel punto sbagliato, io crollo. E così è successo, ma so che Janice non l'ha fatto apposta.»
«E Noah dov'è? So che è venuto a cercarti.»
Alex non rispose, ma Maggie lo guardò negli occhi, per infondergli sicurezza: una sicurezza che solo i veri amici ti sanno dare.
«Abbiamo litigato. Pesantemente. Ho detto cose che non mi credevo in grado di pronunciare, ma non sono arrabbiato con lui. Sono arrabbiato con i miei genitori.»
E dopo averlo confessato, a Maggie come a sé stesso, iniziò a raccontare una delle sue ferite; una che continuava a chiudersi per poi riaprirsi.
«I miei sono spesso e volentieri via per lavoro, tornano a casa se ci va bene una volta al mese, ma per me quelle poche ore sono talmente preziose, talmente importanti, che mi possono cambiare l'umore per settimane. Io tengo molto, moltissimo, a ciò che loro pensano, ma per loro non è lo stesso. Quando arrivano a casa a malapena mi salutano, e se lo fanno si vede che sono disinteressati. E io vorrei dirgli così tante cose, raccontargli del bel voto che ho preso a scienze, di quel gusto nuovo di gelato che hanno messo alla gelateria dove andavamo sempre da piccoli, fargli sentire i pezzi nuovi che imparo a musica; sì, sono cazzate, ma io ci tengo. Ma quello che ancora di più mi fa incazzare è che invece a Noah riservano tutte le già poche attenzioni che hanno: gli chiedono come va a scuola, quali pezzi nuovi ha imparato, cosa vuole mangiare per cena; papà lo invita anche alle cene con i suoi colleghi. Entrambi pensano che Noah possa diventare il nuovo loro, la loro fotocopia; io invece sono troppo diverso, troppo sbagliato.»
Alex iniziò a piangere senza neanche accorgersene, ma non gli importava: era riuscito a dire tutto quello che gli passava per la testa a qualcuno di diverso da sé stesso.
«Non sei assolutamente sbagliato, Alexander. Io trovo tu sia perfetto così, non vorrei che tu fossi in nessun altro modo, e sicuramente non sono l'unica a pensarlo. So che sono i tuoi genitori, coloro che ti hanno creato, ma non per forza la vera famiglia è quella biologica. Tu, per esempio, hai Noah, che, per quanto ti venga difficile ammetterlo, è una delle tue persone preferite al mondo. Adesso sorridi, dai, che altrimenti ti vengono le rughe e non è il caso.»
Alex abbracciò Maggie, vedendosi per la prima volta sotto una luce nuova. Gli ci sarebbe voluto un po', a fare a meno del giudizio altrui, soprattutto quello dei suoi genitori, ma era una battaglia che era disposto a combattere.
«Io sono Alex Harrison» si disse.
«Sì, lo sei» gli rispose Maggie ridendo.

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