8. Niente è come sembra

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Xavier


L'Alfa Romeo bianca parcheggiata sotto l'ostello significava solo una cosa: lui era lì.

Mi chiedevo perché, con tanti soldi sporchi nelle tasche, avrebbe dovuto acquistare una camera di ostello al posto di una normale camera di albergo extra lusso come era suo solito fare. 

Mi stava cercando, sapeva benissimo che ero evaso dal carcere nel quale lui stesso mi aveva rinchiuso. E ora che io ero fuori, ero libero da ogni vincolo.

Aveva una paura matta che potessi agire prima di lui. Aveva paura della mia vendetta.

Ciò che non sapeva era che anche io, sebbene fossi solo, avevo amici lontani disposti ad aiutarmi. Voleva trovarmi prima che io trovassi lui, per farmi fuori.

Ma io non ero così fesso. Stavo organizzando lentamente la mia vendetta, avrei rivendicato Francis, anche se nessuno poteva più portarmelo indietro. Di lui mi rimanevano i suoi vestiti, i gemelli che mio padre li aveva regalato e le poche foto che ci ritraevano insieme.

Osservai la struttura da lontano, nascosto dietro la parete di un'abitazione, il cappuccio del giubbotto calato in testa. Fumavo tranquillamente, osservando il coglione intento a scoparsi una delle tante prostitute davanti alla finestra. Perché lui si sentiva padrone del mondo e non gli importava di esser visto da qualcuno in certe situazioni.

Io fumavo, lo osservavo, analizzavo, stando ore e giorni interi in mezzo alla strada, seguendolo per capire i suoi movimenti.

Ma non era lui che agiva, lui comandava e basta, mentre si godeva la bella vita, in attesa che i suoi scagnozzi mi catturassero; cosa improbabile dato che la casa in cui mi trovavo insieme alla piccoletta non era mia.

Il carcere mi aveva aiutato, avevo conosciuto ladri, assassini e gente come me, capitata in giri strani e finita dalla parte del torto a causa del potente di turno.

Io e Francis eravamo vittime di tutto quello, costretti a unirci a lui fin da piccoli, per aver assistito a ciò che non dovevamo vedere. Era un bastardo approfittatore che aveva venduto la sua anima al diavolo pur di ottenere quello che voleva: soldi, droga, puttane, bella vita.

Sfruttava i più deboli in modo tale che facessero ciò che lui non poteva fare: sporcarsi le mani.

Ordinava chi uccidere, ordinava quanti chili di coca esportare in America e ogni sera sceglieva dai migliori bordelli illegali le più fortunate con le quali passare la serata.

Come lo sapevo? Io e Francis eravamo i suoi scagnozzi fidati, coloro che facevano il lavoro sporco, coloro che insieme a lui condividevano donne, strisce di bianca e soldi.

Mi facevo schifo se pensavo a ciò che ero stato, a ciò che facevo. Ma se lui pensava che il carcere mi aveva indebolito, si sbagliava di grosso.

Avevo passato tre anni per disintossicarmi completamente, tre per riprendere la mia vita in mano e l'ultimo anno, prima di evadere, lo avevo passato ad organizzare un piano per poterlo distruggere.

Mi avrebbero sbattuto in cella nuovamente? Ovvio. Ma almeno ritornavo dietro le sbarre con la consapevolezza di aver visto il suo corpo massacrato e gettato sotto terra.

Solo in quel momento potevo dire addio come si deve a Francis.

Gettai il mozzicone per terra e decisi che girovagare senza ottenere prove non era la soluzione migliore. La ficcanaso che gironzolava nell'appartamento sequestrato era da sola e in qualche modo, anche se mi costava ammetterlo, era una mia responsabilità.

Presi le vie secondarie, per evitare di farmi vedere in giro. Ero ancora lontano da casa, mancavano circa due chilometri di strada, a piedi.

Svoltai l'angolo e in pochi secondi mi ritrovai accerchiato da due macchine da corsa che conoscevo benissimo e sei uomini, di cui due di loro erano vecchie conoscenze.

"Guarda guarda chi abbiamo qui..." Tiziano si avvicinò a me, girandomi intorno.

Strinsi i denti, avevo ancora il cappuccio calato sulla testa e le mani nelle tasche del piumino nero.

"Il carcere ti ha sciupato eh"

Se solo sapesse il numero di trazioni giornaliere che facevo e cosa si nascondeva sotto il giubbotto non avrebbe scherzato ancora.

"Hai perso parecchio peso, l'assenza della farina ti ha fatto male eh?" Josh, italo-africano, cioccolatino cento per cento fondente, si prese beffa di me, allontanandosi dal muso della macchina accesa.

"Tu se assumi troppa invece" gli risposi, facendo riferimento al suo fisico a forma di... a forma di niente, poiché non ne aveva.

"Sentilo Tiz, parla come un evangelista... le tue battutine non le faceva neanche mia sorella alle elementari" scoppiò a ridere e sputò in direzione dei miei anfibi.

Il biondino, ricoperto di piercing dalla testa ai piedi mi prese per il bavero ma non riuscì ad alzarmi.

Ero il doppio della sua statura e quasi venti centimetri più alto di lui. Neanche il dolcetto gianduia poteva competere con quello che ero diventato.

"Steve vuole la tua testa morta sul suo cazzo di tappeto di pelliccia di tigre" affermò.

"Sono tutto vostro" dissi convinto, sogghignando leggermente "fammi fuori Casadei".

Mi tirò un pugno sul viso, forte ma non tanto da stendermi.

La tattica era fingere di star male per poter attaccare quando meno se l'aspettavano e così feci.

Con un calcio lo stesi per terra, lo bloccai stendendomi su di lui e gli sferrai una serie di pugni così forti da rompergli il naso.

Il cioccolatino mi trascinò all'indietro ma non ci volle molto per stendere anche lui. Anzi, lo ammazzai definitivamente con una gomitata dietro il collo, che scricchiolando mi fece capire che era ormai rotto.

Gli altri quattro, ancora ragazzini appena patentati, mi osservarono senza saper cosa fare.

"Avanti il prossimo" affermai, alzandomi in piedi.

Abbassai il cappuccio e alzai lo sguardo sui loro volti.

Ero sudato, le nocche sanguinanti come anche il labbro. Sputai il liquido rosso per terra e sorrisi, pronto per attaccare nuovamente.

Josh era morto, Tiziano Casadei se ne stava per terra, inerme ma ancora vivo.

"Andiamocene ragazzi, prendeteli" ordinò uno di loro, che un po' ricordava me quando ero ancora adolescente.

Presero entrambi e li caricarono sulle auto, nei sedili posteriori. Sull'asfalto i segni delle gomme misti a quelli del sangue incrostato facevano da cornice alla nebbia notturna di fine dicembre.

Osservai il ragazzino che aveva preso parola: moro, occhi azzurri, alto e magrolino, da poco diciottenne.

"Digli al tuo capo di trovare altri uomini capaci di ammazzarmi..." si posizionò vicino allo sportello del guidatore aperto, in procinto di prendere posto sul sedile.

"E ascolta un povero coglione come me... vattene prima che ti distrugga la vita, come ha fatto con la mia"

I suoi occhi non mi abbandonarono per un attimo, neanche quando sfrecciò davanti a me con la Mustang verde fluo, la stessa che guidavo io pochi anni prima.



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