4. Nessuna via di fuga

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Contenuti sensibili


Sofia

Quando riaprii gli occhi non era ancora giorno. Sbattei più volte le palpebre per cercare di vedere qualcosa al buio. La lampada sul comodino era stata spenta e in quella stanza regnava un silenzio assoluto.

Lui non c'era...

Mi alzai in fretta, dimenticandomi di non poter camminare. Caddi per terra e mugugnai dal dolore, stringendo le labbra tra i denti per non far rumore. Raggiunsi la porta della camera strisciando, ma come immaginavo era chiusa a chiave.

Così tentai di affacciarmi alla finestra, dall'altro lato della stanza.

Ma cosa potevo aspettarmi? Quella casa in cui mi trovavo era un fottuto appartamento situato nei piani più alti di una stupida palazzina. Niente balcone, niente terrazza, il vuoto cosmico sotto di me. Mi sentii impotente, un uccello rinchiuso in gabbia, privo di libertà, in un posto sconosciuto, con gente sconosciuta.

Il paesaggio intorno a me non era neanche un lontano ricordo di esperienze vissute. Non conoscevo quel quartiere, ma dall'aspetto delle palazzine e dell'asfalto disconnesso delle strade, era un posto squallido e malfamato, come sicuramente lo era il mio rapitore.

Scoppiai a piangere, portando una mano sulla bocca per trattenere i singhiozzi. Caddi in ginocchio, proprio davanti alla finestra, dalla quale entrava la poca luce dei lampioni stradali.

Non sapevo che ore fossero, ma passai tanto tempo a piangermi addosso, sperando che qualcuno aprisse quella porta per portarmi a casa. Gattonai fino al letto e salii su di esso, continuando a piangere.

Non piangevo così da una vita, probabilmente da quando all'età di nove anni avevo scoperto che Babbo Natale non esisteva. Chissà come avrei passato quel Natale, chissà se sarei sopravvissuta a lungo per vedere l'alba di un nuovo anno.

Sentii la serratura scattare e sussultai, stringendo in un pugno le coperte sotto di me. Finsi di dormire, appiattendo maggiormente la testa sul cuscino, l'unica morbida certezza che avevo.

I passi lenti e il rumore della chiave nuovamente girata mi fecero capire che lui era lì. Trattenni il fiato, mentre provai un mix di sensazioni per niente positive.

Percorse la stanza e captai la luce accesa dell'abat-jour sotto le palpebre chiuse. Sentii un lieve rumore, come se avesse posato qualcosa sul comodino affianco al letto. L'ansia aggrovigliò le mie viscere, riducendo lo stomaco a un piccolo sassolino; non riuscii più a respirare quando avvertii il materasso abbassarsi sotto il suo peso.

Probabilmente il mio cuore cessò di battere nel frangente in cui spostò alcune ciocche di capelli cadute davanti al mio viso.

"Non fingere di dormire, so che sei sveglia"

Il modo in cui lo disse mi fece quasi tremare. Cosa dovevo fare? Continuare a fingere? Aprire gli occhi? Analizzai la situazione e dedussi che in entrambi i casi, non me la sarei passata liscia comunque.

Colpevole e con la paura fino al midollo, sbattei piano le palpebre finché i miei occhi non incontrarono i suoi. Rimasi immobile, non sapendo cosa fare; lui non smetteva di osservarmi e io distolsi lo sguardo sentendomi a disagio. Giocherellai con le dita su un filo del lenzuolo penzolante.

"Ti ho portato da mangiare" posò il piatto, preso dal comodino, davanti ai miei occhi.

"N-non ho fame..." balbettai, chiudendomi maggiormente a riccio.

"Ti conviene mangiare, Cocò. E ti conviene farlo subito. Voglio vedere quel cazzo di piatto brillare" affermò severo, stringendo la mascella.

Non mi fidavo per niente, magari poteva averci messo del veleno.

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