Mi sento bruciare come se mi trovassi al centro dell'inferno. Avverto dei rumori, delle persone che urlano, delle sirene che suonano. Non riesco ad aprire gli occhi, eppure qualcosa mi dice che devo farlo, che ho lasciato indietro qualcuno. Ma quel pensiero perde d'intensità fino a lasciare soltanto un intorpidimento. Un ago mi viene infilato nel braccio, lo percepisco perché il dolore inizia a sparire, il mio respiro si quieta e io mi addormento ancora.
Mi sveglio una seconda volta, i miei pensieri sono ancora annebbiati e gli occhi continuano a rimanere chiusi. Però non sento più le urla e le sirene. In realtà non sento proprio niente. Solo un silenzio incolmabile. Il dolore è scomparso.
È possibile che io sia morto? Non posso esserne del tutto certo, ma il fatto che non riesco ad aprire gli occhi potrebbe essere un suggerimento.
Mi concentro su quello che mi circonda, cerco di drizzare le orecchie e mi accorgo che qualcosa lo sento: un bip. Un bip costante, leggero, ma che nel silenzio della stanza diventa di un'intensità tale da farmi male alle orecchie.
Gemo di fastidio e provo a muovere le braccia perché voglio che smetta, ma quelle non rispondono ai miei impulsi. La mia mente cerca di suggerirmi qualcosa, ma la zittisco, perché non sono affatto pronta ad ascoltarla. Così faccio quello che attualmente mi riesce meglio: mi addormento.
«Sono tre giorni che dorme incessantemente, è una cosa normale?» sento una voce bisbigliare, devo essermi svegliato di nuovo.
«Certo signore, ha inalato moltissimo fumo, ha subito diverse operazioni e un trauma. Mi creda, il fatto che respira da solo ci fa ben sperare. Crediamo che riprenderà le forze a breve, bisogna soltanto avere fiducia» spiega la seconda voce.
Cerco di capire di cosa stanno parlando, ma è come se la mia testa si rifiutasse di rivivere quei momenti. Scavo in profondità, dei flash di fuoco, urla e pianti si fanno strada nella mia mente. Sussulto.
«L'ha visto?» domanda la prima voce, la conosco, ma non mi ricordo a chi appartiene. Sento dei passi avvicinarsi.
«Potrebbe essere stato uno spasmo, che ne dice di accomodarsi in sala d'aspetto? Le faccio sapere se ci sono novità» dice quello che credo sia un medico.
«Va bene, scusi, sono molto scosso.»
Dopo queste parole la prima persona si allontana e la seconda mi rimbocca le coperte prima di seguirla.
Qualcuno sta urlando.
Qualcuno si sta contorcendo nel letto.
Qualcuno si sta strappando di dosso i cavi a cui è collegato.
Qualcuno chiede disperatamente di Daisy.
Qualcuno viene bloccato.
Qualcuno viene sedato.
Qualcuno torna a dormire.
Una luce intensa mi colpisce le palpebre chiuse, le stringo con forza, ma alla fine infastidito tento di aprirle, mi porto una mano davanti alla faccia per coprirmi dal sole e lentamente prima una palpebra e poi l'altra riesco ad aprirli. La luce è così accecante che giro di scatto il viso dall'altra parte e mi ritrovo a guardare una persona appallottolata sulla poltrona che dorme. I capelli biondi brizzolati, la barba incolta di un paio di giorni, la mano poggiata sotto la guancia. Mio padre ha un aspetto terribile, i suoi soliti abiti eleganti sono stati sostituiti da una tuta da ginnastica e sandali. Non l'ho mai visto così trasandato.
Lo lascio dormire e con l'aiuto delle braccia mi metto a sedere sul letto, il dolore si irradia lungo le mani fino alle spalle. Porto il braccio destro di fronte la faccia e noto con orrore piccole e grandi bruciature che si irradiano per tutto il braccio, le peggiori sembrano essere state ricucite con altra pelle.
Il solo guardarle mi procura un conato di vomito, la bile mi risale in gola e faccio appena in tempo a girarmi dal lato opposto a mio padre prima di vomitare.
«Kegan?» domanda papà.
La sua mano fredda si posa sulla mia fronte spostandomi i capelli, quando finalmente sento che non ho più niente da rimettere mi siedo di nuovo, lo sguardo vacuo e perso nel vuoto.
Mi trovo in un ospedale, le pareti bianche e i macchinari ne sono un chiaro segnale.
Le mie bruciature...
«Lei dov'è?» domando con voce gracchiante a mio padre, prima di mettermi a tossire. Lui preme un pulsante dietro di me, probabilmente per chiamare un'infermiera. Gli occhi verdi di lui, così simili ai miei, mi scrutano e non allontanano la mano dalla mia fronte.
«Adesso devi pensare soltanto a riprenderti, Kegan. Sono così felice che tu stia bene, ci siamo preoccupati, moltissimo» mormora papà facendomi una carezza sul viso.
Un'infermiera entra di gran carriera, seguita da un medico e altri due infermieri, corrugo la fronte non capendo la necessità di tutto questo personale.
«È tranquillo, non è come l'altra volta» afferma mio padre, cos'è successo l'altra volta?
Il medico si avvicina a me con una cartellina.
«Come ti senti Kegan?» domanda, mentre l'infermiera pulisce il disastro del mio vomito per terra.
«Dov'è?» domando di nuovo, non riuscendo a pensare ad altro.
Daisy. Daisy. Daisy. Daisy. Daisy. Daisy. Daisy.
«Puoi farmi vedere come muovi le braccia?» chiede il dottore evitando di rispondere alla mia domanda.
La collera ribolle nelle mie vene, stringo con forza le dita attorno il lenzuolo, anche se vorrei stringerle attorno al suo collo.
«Dov'è mia sorella?» ringhio prima di tossire di nuovo, «dov'è Daisy?» dico a voce più alta, seguito da un altro acceso attacco di tosse, sbatto i pugni contro il letto.
«Dov'è Daisy?» grido con quel poco fiato che ho in gola, gli occhi si riempiono di lacrime che lascio scendere indisturbate.
«Dov'è?» domando ancora tra un accesso di tosse e un altro, mio padre si avvicina e mi avvolge tra le braccia. Provo a tirarmi indietro, a colpirlo, ma sono troppo debole e inerme. Piango più forte contro la sua maglietta mentre i ricordi si fanno strada nella mia testa e la tosse non accenna a diminuire.
«Kegan... va tutto bene» sussurra mio padre e io vorrei urlargli che no, non va tutto bene. Che non andrà mai più niente bene. Ma non ho più voce, il dolore che provo nel cuore è niente in confronto a quello che sento nelle braccia perché mia sorella è morta.
Mia sorella è morta.
Quel buco che sento all'altezza del petto mi conferma questa ipotesi. Non è necessario che qualcuno lo dica ad alta voce. Un pezzo del mio cuore è svanito, non sento più la sua presenza. Lei non c'è più.
«Daisy» provo a dire ancora, mio padre mi stringe ancora più forte e le sue lacrime si uniscono alle mie. Che senso ha rimanere in vita quanto la ragione della tua esistenza è morta?
«Non voglio vivere senza di lei, papà.»
«Nemmeno io lo vorrei»risponde, stringo forte la sua maglietta nel mio pugno e rimaniamo a piangerein quel letto per un tempo infinito.
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Abbandonando la mia strada
ChickLitJenny Baker fin da ragazzina ha sempre creduto nell'amore. Era convinta che un giorno avrebbe trovato il suo principe azzurro. E a quindici anni pensava di esserci riuscita: lui era intelligente, bello e gentile. Tutto ciò che una ragazza desidera i...