Capitolo 14 - Kegan

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Il telefono che squilla mi fa svegliare dal mio riposino pomeridiano, quelle poche ore che ho a disposizione tra un lavoro e un altro di solito le passo in palestra o in compagnia, ma oggi il mio corpo mi ha pregato di farlo riposare e per mia fortuna non ho avuto incubi.

Sbadiglio e allungo il braccio per cercare il cellulare sul tavolino davanti al divano, lo afferro e assonnato lo porto all'orecchio. «Pronto?» domando con la voce ancora impastata dal sonno.

«Kegan? Stai bene?» chiede la voce dall'altro capo del telefono. L'annebbiamento dovuto al sonno sparisce, mi metto seduto e subito sugli attenti.

«Mamma...» mormoro sbattendo le ciglia più volte, saranno quanto? Due o tre mesi che non la sento? Due mesi in cui non ho ricevuto da parte sua nessun aggiornamento. Sento un respiro soffocato dall'altro lato della linea e qualcosa di caldo mi scivola lungo la guancia. Mi passo una mano su di essa redendomi conto che si tratta di lacrime.

«Piccolo mio» risponde lei in un singhiozzo, deglutisco il groppo che mi chiude la gola e mi impedisce di parlare.

«Mi manchi mamma» mormoro con tutta la dolcezza di cui sono capace e lei scoppia a piangere. Sento movimento dall'altro capo del telefono, qualcuno che va a chiederle se va tutto bene, mentre io sono qui, che tremo da solo, come lo sono da anni.

«Anche tu mi manchi, tesoro. Adesso mi concedono una telefonata ogni due settimane. So che non è molto ma almeno...» fa una pausa, il mio stomaco si ritorce in una morsa.

«Ce la faremo bastare, mamma. Non posso venire a trovarti?»

Non la vedo da più di un anno ormai. Non è colpa sua, lo stanno facendo per il suo bene, anche se non ho mai approvato la scelta di mio padre sul centro, soprattutto per le loro regole rigide sui pazienti e il loro contatto con il mondo esterno.

«Non ancora, tesoro. Non ancora. Però forse il mese prossimo se continuo con il recupero.»

Stringo i denti, anche se la speranza sboccia nel mio petto.

«Mamma... non possono tenerti lì contro la tua volontà se tu vuoi andare via basta una parola e io...» Sento un debole respiro dall'altro capo del telefono.

«Va bene così, amore. Ho solo pochi minuti. Voglio sapere come stai, sei ancora impegnato con quella bella ragazza?»

"Non c'è nessuna bella ragazza, mamma, l'ho persa quasi dieci anni fa." Questo è quello che dovrei dirle, quando è scoppiata la sua malattia è successo così in fretta che non ho avuto modo di dirle che ci eravamo lasciati e nel momento in cui mi hanno concesso di parlare con lei, mamma mi ha subito chiesto di Jenny, era felice che avessi qualcuno accanto ad accompagnarmi in questa tragedia, cosa che per lei non era accaduta con papà, che l'aveva abbandonata nel primo centro disponibile.

Per questo non le avevo detto che l'avevo lasciata, per questo avevo continuato la commedia per tutti questi anni. Sentendola poco era stato facile, ma adesso si meritava di sapere la verità.

«Kegan, ci sei ancora? Com'è che non avete ancora pensato a un fidanzamento ufficiale? Dopo dieci anni direi che è l'ora, è chiaro che state bene insieme» continua lei e capisco che nemmeno stavolta potrò dirle la verità.

«Va tutto bene, mamma. Preferiamo prenderci i nostri tempi, se mai dovesse esserci l'annuncio di un fidanzamento sarai la prima a saperlo.»

Sento un grido di esultanza dall'altro capo del telefono, mi metto a ridere, la sua risata, le sue parole, mi mancano veramente tanto.

«Sono fiera di te tesoro. E tu stai bene? Al lavoro?» chiede, sospiro, se le dicessi la verità la risposta sarebbe "no, per niente, non dormo più di tre ore a notte, ho rischiato con una dose pesante di sonniferi, continuo ad avere incubi dove quella persona muore e Jenny mi odia."

«Alla grande, sono un tipo importante al pub ormai, Hunter mi affida spesso il locale. È tutto perfetto, davvero mami» mento sentendo un macigno al centro del petto per tutte le bugie che le sto dicendo in questo momento.

«Sono felice tesoro, adesso devo proprio andare, ti chiamo appena posso. Ti voglio bene, Kegan.»

«Ti voglio bene, mamma» rispondo prima di chiudere la chiamata.

Mi passo le dita sulle guance asciugando altre lacrime che sono scese unendosi alle precedenti, afferro il cuscino e me lo porto alle labbra e ci urlo contro. Urlo per la mia famiglia distrutta, urlo per mia madre che è costretta a stare in un centro per disturbi mentali, urlo per il menefreghismo di mio padre nei suoi confronti. Urlo finché la voce non mi diventa roca e solo allora smetto e lancio il cuscino dall'altro lato del divano.

Mi sento un guscio vuoto, non mi riconosco più in quanto persona.

Mia madre mi manca ogni giorno, ogni singolo giorno e sono più che sicuro che presto riuscirò a tirarla fuori da lì. Non ha bisogno di cure farmacologiche, non più, ma di affetto. Quello che io le darei senza esitare.

Mio padre ha preferito rinchiuderla perché non era in grado di prendersi cura di lei, io ancora adolescente non avevo diritto di parola, ma adesso posso farlo. Devo soltanto riuscire a superare i miei incubi e avere un lavoro che mi permetta di sostenerla.

E solo a quel punto che mi rendo conto che ho bisogno di aiuto, non per me stesso, ma per lei. Così che quando potrà finalmente uscire sarò pronto ad accoglierla. Ma non posso farcela se continuo a rifiutare l'aiuto degli esperti.

Faccio un respiro profondo e scuoto la testa, presto, magari chiederò consiglio ad Eleonor.

Apro il profilo Instagram e cerco quello di Jenny, ha postato dei nuovi video e il sorriso si apre istantaneo sul mio volto. Mia madre pensa che stiamo ancora insieme, è un bene che non abbia accesso ai social o capirebbe che non c'è assolutamente nulla tra di noi. Anche se vorrei che ci fosse, anche se lotterei per averla di nuovo se ne avessi le possibilità. L'ho allontanata per tenerla al sicuro, in una sola giornata sono riuscito a spazzare via tutto quello che di buono avevo fatto in tanti mesi di frequentazione con lei e Jenny non mi darà mai più un'altra possibilità.

Abbandonando la mia stradaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora