18. VIPSANA

46 7 30
                                    

None di febbraio (5 febbraio)

Sentiva i suoi occhi sulla schiena, mentre gettava alla rinfusa gli abiti nelle arcae. Sassolini di ossidiana che le si conficcavano nella carne e premevano, ardenti come braci. Era come avere la punta aguzza di decine di lance puntate contro. Al minimo movimento l'avrebbero trafitta, ma intanto restavano lì, minacciose.

Amani trasportò all'esterno l'ultima arca, strabordante dei suoi effetti personali. Quindi l'attese nelle fauces, fissandola. Non badava molto alle convenzioni, Amani. Un tempo era stata una coraggiosa guerriera, non si sarebbe mai piegata, nemmeno ora che era solamente una schiava, e Vipsana non glielo avrebbe mai chiesto. La rispettava e ammirava e se Amani la fissava in quel modo era solo per comunicarle la fretta che avevano.

E aveva ragione, ma non poteva andarsene senza aver ottenuto ciò che voleva dalla nonna.

Prese un profondo respiro e, riagganciandosi all'ultimo rimprovero che l'anziana donna le aveva rivolto, le disse a denti stretti: «Non ti chiedo di dirmi se sto agendo saggiamente o meno. Ti chiedo solo di aiutarmi per l'ultima volta.»

Drusa era accomodata sul triclinio, i piedi posati su mattoni caldi rivestiti di panni. Il suo volto non trasmetteva alcuna emozione. «Non otterrai nulla.»

Vipsana fece un passo in avanti, sforzandosi di non perdere la pazienza. «Mi aiuterai? Mentirai per me, se sarà necessario?»

«Sì. Ma tornerai, ragazzina. Non farti illusioni.»

Non ho illusioni, solo certezze. Ma questo Vipsana evitò di dirlo. Si chinò per baciarla sulle guance soffici. «Grazie, avia. Avrai mie notizie. Ti scriverò quando avremo ideato un piano.»

Drusa non la salutò, Vipsana non attese una cortesia che sapeva non sarebbe arrivata e raggiunse Amani sulla soglia. La porta si richiuse dietro di loro e le due donne salirono sulla portantina stracarica di bagagli che le avrebbe condotte alla porta della città.

Era la seconda volta che compiva quel viaggio. Questa volta non sarebbe andata a Baia, ma poco distante, dove Rabirio aveva trovato ospitalità presso la sorella di sua madre. Doveva avvisarlo. Lui doveva sapere cosa stava accadendo a Roma, in sua assenza. Doveva dirgli di Aulo, ma soprattutto del bambino. Dovevano andarsene, ormai non c'era più tempo. Difficilmente avrebbe avuto l'occasione di sbarazzarsi di sua madre, ora che aveva subodorato la cosa. Ma non avrebbe fatto alcuna differenza. Nessuno sapeva dov'era diretta, nessuno sapeva che Rabirio era ancora vivo. La nonna non avrebbe parlato, e nemmeno la zia del suo amato. Sarebbero stati al sicuro. Sarebbero stati felici.

Giunsero a Miseno dopo tre giorni di viaggio. Vipsana era stanca, sporca e piena di nausea ma la vista della villa di Decio Emilio - per la quale aveva dovuto chiedere indicazioni a più di un passante - la riempì di vitalità.

Era tardi, le ultime luci del giorno erano sprofondate nel mare calmo e grigio che intravedeva in lontananza. Forse non era elegante da parte sua presentarsi a quell'ora e domandare ospitalità, ma non avrebbe trascorso un istante di più lontana dal suo amore. Da troppo tempo non lo vedeva e ora il cuore minacciava di saltarle fuori dalla stola per l'emozione.

Lei andò avanti, Amani la seguì coi bagagli. Bussò alla porta e attese, quasi scalpitando e rabbrividendo per il vento gelido che la investiva. Finalmente l'uscio si socchiuse e uno schiavo si affacciò, scrutandola sospettoso.

«Cerco Gneo Romilio Rabirio.»

«Non c'è nessuno con questo nome.» E fece per chiudere la porta, ma Vipsana lo bloccò con una manata energica.

«So che è qui. Sono una sua amica.»

Lo schiavo la scrutò a lungo, poi dovette accorgersi che non era una plebea. «Attendete, prego.»

GentesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora