41. SETTIMIA

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Sesto giorno prima delle Idi di marzo (10 marzo)

Settimia osservò le figlie uscire dal triclinio e sorseggiò il suo calice di Falerno.

Era filato tutto liscio. Vipsana non aveva certo l'aria della sposina felice, ma ciò la interessava in minima parte. Temeva che avrebbe avuto un ripensamento o un attacco di panico, che avrebbe strillato e pianto, che si sarebbe buttata a terra o aggrappata alle colonne. Che l'avrebbe fatta vergognare davanti agli ospiti buttando all'aria mammelle di scrofa e lingue di fenicottero.

Invece si era comportata con tutto il decoro di una fanciulla patrizia che convola a nozze scelte per lei senza una protesta sulle labbra. Settimia non avrebbe potuto sperare di meglio.

Aveva avuto dei piani in passato, per lei. Come li aveva avuti per Vistilia. Aveva pensato di dare la sua primogenita in sposa a Tiberio, il figlio maggiore di Livia Drusilla, sua migliore amica e ora imperatrice di Roma. Per Vipsana aveva vagliato una quantità esagerata di proposte di matrimonio, soprattutto da quando suo marito era diventato console.

Ma poi quel bastardo di Rabirio aveva rovinato tutto. Aveva sedotto la sua stupida bambina ignorante e il suo gesto aveva scatenato ripercussioni che stavano ancora pagando. Vistilia aveva dovuto sposare un uomo che odiava e Vipsana, marchiata a vita come una schiava fuggitiva, aveva dovuto concedersi a quello sgorbio di suo cugino. Nessun altro l'avrebbe voluta, Settimia ne era certa. Da quando si era diffusa la voce della violenza occorsale, infatti, non erano più state avanzate proposte alla sua mano e, anche se gli antichi pretendenti non avevano avuto la malagrazia di tirarsi indietro, non avevano nemmeno rinnovato le loro offerte. Settimia aveva incrociato le matrone più in vista della città, Cornelie, Emilie e Valerie, che anni addietro avevano proposto i loro figli come possibili mariti per Vistilia e Vipsana; quelle avevano esibito sorrisi tirati e si erano affrettate ad allontanarsi da lei, come se fosse un'appestata.

Settimia serrò i denti al ricordo della costante umiliazione che le si era appiccicata addosso come un marchio d'infamia da quando il rampollo dei Romili aveva violato sua figlia. Che lei fosse stata consenziente poco importava: lui l'aveva sedotta e ingannata, l'aveva circuita e imbrogliata. Meritava il destino che gli dèi gli avevano riservato, anche se ancora non si era scoperto di chi fosse la mano che lo aveva colpito. Voci in città mormoravano che Rabirio avesse contratto dei debiti, di gioco e d'amore, e che i suoi creditori avessero deciso di riservargli una punizione esemplare. In ogni caso, le avevano risparmiato la fatica di coprire le tracce del gladiatore che aveva mandato a Baia.

Vitellione si mosse sul divanetto accanto al suo. «Va tutto bene, direi.»

Settimia finì il vino e posò il calice sul tavolino. «Direi di sì.»

«Mio figlio è agitato.» Vitellione osservava Aulo, rimasto solo nel triclinio d'onore. Aveva mangiato a malapena e bevuto ancora meno. Ora si guardava intorno, la testa incassata nelle spalle, gli occhi da rana che saettavano a destra e a sinistra.

«Non credo che a mia figlia importi.»

«L'ho vista piuttosto distaccata.»

«Credo si sia resa finalmente conto di cosa la sua leggerezza abbia comportato. La sua vita è finita nell'istante in cui ha permesso a Rabirio di metterle le mani addosso.»

«Credevo l'avesse violentata.»

«Il risultato è lo stesso.»

«A una violenza non puoi opporti.»

Settimia si girò a guardarlo con sufficienza. «Davvero? Quando un barbaro ti attaccava, al fronte, tu non ti difendevi?»

«Era diverso. Eravamo uomini ed entrambi armati.»

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