29. ROMILIA

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Sesto giorno prima delle Calende di marzo (25 febbraio)

La Biblioteca Palatina era stata inaugurata sull'omonimo colle pochi mesi prima insieme al nuovo Tempio di Apollo. I due edifici erano parte del complesso architettonico del palazzo del princeps, ma avevano ingressi separati e aperti al pubblico. All'interno della biblioteca, divisa in una sezione latina - piuttosto spoglia, a dire il vero - e una greca, si radunavano intellettuali di ogni sorta, senatori che la sceglievano come sede per alcune riunioni straordinarie, clientes che attendevano che Augusto accordasse loro il permesso di accedere alla sua regale presenza...

E fanciulle di buona famiglia che si trovavano più a loro agio in mezzo a volumina polverosi che non in mezzo alle persone.

Romilia sedeva su un divanetto e divorava le nugae di Catullo, il petto a più riprese agitato da sospiri voluttuosi e gli occhi brillanti per le dichiarazioni d'amore che il poeta lanciava alla sua bella e inafferrabile Lesbia.

Accanto a lei, su ciascun lato del divanetto, stavano le sue ancelle, annoiate. Ciondolavano i piedi, si rassettavano le vesti, giocherellavano con i capelli e si guardavano intorno. Non potevano nemmeno comunicare tra loro, divise com'erano dalla padrona immersa nella lettura. Così cercavano di attirare gli sguardi di qualche giovane di bell'aspetto, che potesse farle arrossire e sognare per tutta la notte. Erano graziose, come tutti gli schiavi della gens Romilia, neppure ventenni, ridacchianti e maliziose, ma allo stesso tempo schive ed educate.

Notarono entrambe nello stesso momento il giovane dai ricci capelli ramati che era appena entrato nella biblioteca. Iniziarono a scrutarlo da sotto le ciglia e, a più riprese, si volsero l'una verso l'altra, dietro le spalle della padrona, per ammiccare e indicarlo con piccoli cenni, nascondendo i sorrisi dietro le mani.

Il giovane si era impadronito di un rotolo di papiro e stava cercando un posto dove sedersi. Ma all'improvviso si voltò nella loro direzione, come se fosse stato attirato da un riflesso. Le ancelle distolsero subito lo sguardo, rosse in faccia, ma lui non guardava loro. Guardava la padrona. Era naturale, era così bella con quei lunghi capelli corvini e quegli occhi colore del cielo. La guardava e il suo colorito mutava, si faceva più caldo, e anche i suoi occhi cambiavano espressione, si accendevano e brillavano come astri.

Le ancelle si guardarono, consultandosi in silenzio. "Che fare?" si dicevano, dandosi segnali con le palpebre. "L'avvisiamo?"

Ma poi il giovane girò di scatto le spalle, ripose il rotolo al suo posto e si impadronì di uno scranno. Lì estrasse da una capsa un foglietto e iniziò subito a riempirlo di scritte che alle ancelle, anche se fossero state in grado di vederle da quella distanza, sarebbero parse incomprensibili, dal momento che non sapevano leggere.

La padrona intanto continuava a leggere, del tutto ignara dell'agitazione che si stava verificando intorno a lei. Le due ancelle tenevano d'occhio il giovane, perché era davvero un bel giovane, alto e magro, con un'aria da poeta che le faceva sognare. E se la padrona lo avesse visto avrebbe sognato anche lei, perché era proprio il tipo d'uomo che le sue ancelle le avrebbero visto bene accanto. Peccato che la sua mano fosse già stata quasi reclamata da quel borioso di Marco Tizio, che parlava sempre e solo di sé ed era così noioso!

Trascorse il tempo, ma le due ancelle non si annoiarono più, perché avevano davanti lo spettacolo della schiena del giovane che si contraeva sotto la spinta dei muscoli del braccio, dei ricci che gli scendevano sulla fronte, coprendogli talvolta gli occhi grigi, del modo in cui i denti - sorprendentemente bianchi e regolari, per essere un plebeo, perché di certo patrizio non era, con quegli straccetti usati che indossava - trafiggevano per la concentrazione la bocca morbida.

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