40. VIPSANA

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Sesto giorno prima delle Idi di marzo (10 marzo)

L'ancella reggeva lo speculum, le dita della mano destra posate sull'impugnatura in argento e quelle della mano sinistra sull'ovale che rifletteva il volto della giovane padrona. Vipsana teneva gli occhi fissi sul proprio riflesso, osservando la seconda schiava che le stava sistemando i capelli. L'acconciatura era stata realizzata la sera prima, ma una notte di sonno agitato l'aveva completamente rovinata. Questo era ciò che aveva sentenziato Settimia quella mattina, quando aveva varcato la soglia del cubiculum con uno stuolo di ancelle. Quello che non poteva sapere era che quella notte Vipsana aveva metodicamente disfatto le sei trecce e lasciato cadere a terra la reticella rossa che le tratteneva. Lo aveva fatto fissando il vuoto, la mente da tutt'altra parte, lontana da quel luogo, da quel tempo.

Ed era altrettanto assorta in quel momento, mentre l'ancella ripristinava l'acconciatura e stringeva saldamente le trecce, in modo che non potessero disfarsi più.

«Avete dei bellissimi capelli stamani, domina» disse in quel momento, con un largo sorriso.

La schiava che reggeva lo speculum non volle essere da meno: «Non solo i capelli, domina. Siete un incanto, oggi!»

Le altre schiave che assistevano alla preparazione iniziarono ad annuire e cinguettare complimenti e sbattere le ciglia e unire le mani al petto e sospirare di ammirazione.

Vipsana avrebbe voluto strozzarle tutte. Iniziò a fissarle una a una, immaginando come avrebbe potuto ucciderle. A una poteva cavare gli occhi, l'altra poteva pugnalarla allo stomaco, a un'altra poteva tenere la testa nel bacile d'acqua che aveva utilizzato quella mattina per lavarsi...

In quell'istante la porta si aprì e sua madre entrò, portando con sé un soffio gelido. «Non avete ancora finito? Non abbiamo tempo da perdere» sbottò con la sua solita voce aspra.

Le dita dell'ancella raddoppiarono la loro velocità e in pochi istanti l'acconciatura fu completa. Vipsana fu fatta alzare, il linteum che le aveva avvolto il corpo dopo il bagno fu rimosso e le venne fatta indossare la tunica recta. Settimia aveva insistito perché indossasse quella di Vistilia. Nessuno l'avrebbe notato, aveva detto. E il suo non era un matrimonio abbastanza ambizioso da giustificare la spesa di un nuovo abito.

La tunica fu fissata con il cingulum herculeum di lana, che le girò intorno alla vita e venne annodato due volte. Sulle spalle le fu posta una palla color zafferano e ai piedi vennero calzati sandali dello stesso colore. Il collo le venne decorato da una collana di metallo, che le pesò addosso come una condanna a morte. I seni crines che aveva in testa furono avvolti dal flammeum, che le ricadde anche sulla parte superiore del viso, e da quel momento Vipsana vide il mondo attraverso una sfumatura rosso-arancio. Sentì sulla testa il peso della corona di maggiorana e verbena, che la punse e la irritò.

Ma non diede voce al fastidio e rimase zitta e ferma, una bella statua di marmo pronta a essere consegnata all'acquirente. Ignorò lo sguardo di sua madre. Non voleva vedere il suo sogghigno di vittoria e vendetta, non voleva vedere la propria umiliazione riflessa nei suoi occhi neri. Aveva accettato quella via d'uscita perché non ne vedeva altre, ma non le avrebbe permesso di suscitare in lei alcun sentimento, né la vergogna né la rabbia.

In lei non c'era che indifferente gelo e così sarebbe sempre stato, d'ora in avanti.

La vecchia Vipsana, allegra e piena di vita e sogni, era morta a Miseno, quando aveva sentito l'amore della sua vita schernirla e rifiutarla.

La porta si aprì, l'esercito di ancelle le sistemò il vestito e il velo e la corona e ritoccò per l'ultima volta il leggero trucco sul suo volto; poi migrò come uno stormo di uccelli fuori dal cubiculum, lasciandola sola con Settimia.

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