8. SETTIMIA

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45 a.C.

La prima emozione che provò varcando la soglia di quell'enorme domus fu la fierezza. Non si era mai sentita così orgogliosa, così potente come in quel momento. Come nel momento in cui, tenendo la mano del suo promesso sposo, era entrata per la prima volta in un mondo dorato e splendente, come la corona di un re orientale.

«Domani sera conoscerai la mia famiglia» le aveva detto Vitellio la sera prima, dopo aver finito di cenare. Fino a quel giorno si erano incontrati solo a casa di Settimia e attorno al minuscolo tavolo zoppicante erano stati solo in tre: i due innamorati e Drusa, che li osservava con gli occhietti socchiusi e l'espressione del gatto che si prepara a balzare sul topo. Settimia si era sentita schizzare il cuore in gola. Fino a quel momento erano state solo parole, vuote promesse, con la stessa validità di quelle di Romilio. Ma conoscere la famiglia di Vitellio equivaleva a un impegno serio.

Aveva trascorso una notte insonne e agitata. Il mattino dopo Drusa aveva speso i suoi ultimi sesterzi per comprarle un abito nuovo e le aveva fatto indossare gli orecchini che suo marito le aveva regalato quando era nato il loro primo figlio. Settimia non possedeva alcun gioiello. Quelli che le aveva donato Romilio erano stati venduti nei giorni successivi al suo fastoso matrimonio, quando Settimia aveva capito che non c'era più speranza.

Vitellio aveva mandato a prenderla un manipolo di schiavi con la sua lussuosa lettiga dal cornicione dorato e i cuscini morbidi, sui quali Settimia si era adagiata come una regina. Sua madre le aveva sistemato i capelli e la veste fino all'ultimo istante, quando Settimia spazientita aveva ordinato ai lecticarii di partire. Era stato il primo ordine che aveva mai dato a uno schiavo, e si era sentita rizzare i peli delle braccia per l'eccitazione.

Vitellio l'aveva attesa nel cortile antistante la domus. Settimia aveva cercato di non mostrare alcuna sorpresa, di non trattenere il fiato e di non sbarrare gli occhi. Gli aveva rivolto un sorriso dolce, aveva accettato il suo bacio e gli aveva preso la mano, sentendo il proprio palmo umido e scivoloso come la pelle di un serpente. Si era concentrata su quello, sperando che Vitellio non trasalisse per il disgusto e non la lasciasse, mentre varcava le fauces e avanzava nel ventre oscuro della casa, tra due ali di schiavi ritti come legionari.

La famiglia l'attendeva nel peristilio in fiore. Vipsana, la madre di Vitellio, sedeva su una panca in pietra, la schiena perfettamente dritta, il mento sollevato e il volto severo, bianco come il marmo. I capelli biondi erano acconciati all'ultima moda e sotto i raggi del sole parevano quasi bianchi. Aulo Vitellio Vistilio, il pater familias, era eretto al suo fianco, una mano sulla sua spalla, l'altra penzoloni lungo la toga candida. Settimia avrebbe ricordato per sempre quella mano: rossa, gonfia, le nocche fitte di peli neri. Il suo cranio, lucido di sudore e illuminato dal sole, aveva una forma strana, bitorzoluta. Il suo stesso viso era strano, come intagliato nella pietra, aguzzo, con la mascella prominente che guizzava in continuazione, mentre lui serrava i denti fissandola.

Settimia sapeva che non sarebbe stato facile. Sapeva come dovevano vederla, quegli ex plebei arricchitisi per un insperato colpo di fortuna. Lei era una plebea senza cognomen, non aveva denaro, né titoli, né antenati illustri. Aveva solo un bel viso e l'audacia di saperlo usare. Ai loro occhi non sarebbe stata altro che un'approfittatrice, una ladra, una puttana.

Strinse più forte la mano di Vitellio, che ricambiò la stretta prima di lasciarla e andare incontro alla madre a braccia aperte. La baciò sulla fronte e lei non batté ciglio. Abbracciò il padre, che non distolse lo sguardo da Settimia. Lei si era bloccata in mezzo al peristilio, tra cespugli in fiore che la sopraffacevano con le loro odorose fragranze.

Quindi Vitellio indietreggiò, fece un cenno a Settimia e, quando lei lo raggiunse, le mise una mano sulla vita. «Madre, padre, questa è la mia promessa sposa, Settimia Pulcra.»

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