20. SETTIMIA

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Idi di febbraio (13 febbraio)

Il banchetto in casa Romilia sarebbe durato dal tramonto all'alba per i nove giorni successivi. Nemmeno Settimia aveva mai azzardato tanto in termini di sfarzo e denaro. I Romili sembravano determinati a mostrare un nuovo volto alla città, il volto di chi è stato piegato dalla sorte ma non solo continua a reggersi in piedi, potente quercia contro i soffi di Eolo, ma risulta anche più forte di prima.

Ebbene, lei non sarebbe stata da meno. Aveva fatto agghindare la sua famiglia come in occasione delle nozze di Vistilia, tirando fuori i gioielli più preziosi dalle arcae, facendo realizzare abiti nuovi con pregiate stoffe dall'Oriente e comprando persino nuovi calzari dorati per tutti quanti. Vitellione aveva provato a porre un freno alla sua improvvisa febbre, ma Settimia lo aveva zittito con poche, secche parole.

"Di questa festa si parlerà per i mesi a venire. Vuoi davvero che, accanto allo splendore messo in atto dai Romili, si parli anche della misera figura che hanno fatto i Vitelli?"

Vitellione non capiva un accidente di decoro, di apparenza, di esteriorità. Ancor peggio, non gli importava. Era stata un'impresa per Settimia convincerlo quantomeno a indossare gli abiti che lei gli aveva procurato in un'intensa giornata di acquisti al forum lanarium, dopo la quale aveva fatto ritorno con un manipolo di schiavi carichi di lana, lino, cotone e seta. Aveva poi assoldato una squadra di sarte in modo che confezionassero abiti su misura per tutti i membri della famiglia, inclusi i bambini - ed escluse le gemelline, che non avrebbero partecipato al banchetto. Aveva costretto i figli e Vitellione a posare per ore in piedi, le braccia sollevate all'altezza delle spalle, mentre le sarte cercavano di non pungerli con gli aghi, pressate dal persistente esame di Settimia che, essendosi fatta confezionare per prima nove abiti nuovi - uno per ogni sera dei Parentalia - aveva avuto tutto l'agio di supervisionare il resto dei lavori. A Vipsana - con la quale era ancora ai ferri corti e che comunque era già fidanzata e non doveva più fare colpo su nessun giovane rampollo dell'aristocrazia romana - aveva concesso due vestiti, mentre a Vistilia - che era entrata a far parte della gens Romilia e dunque non poteva certo sfigurare di fronte alla suocera e alla cognata - ne aveva concessi sei. Vitellione invece era stato categorico: se Settimia voleva agghindarlo come un pavone per nove giorni consecutivi avrebbe finto un'indisposizione e se ne sarebbe rimasto a casa. Così Settimia aveva di malanimo acconsentito che il cognato si facesse confezionare una sola toga. Ma l'avrebbe accompagnata con tanti di quei gioielli d'oro da tintinnare a ogni passo.

Così, in solenne processione aperta e chiusa dagli schiavi più attraenti della casa, i Vitelli fecero il loro ingresso alla festa.

I Romili erano nell'atrium ad accettare gli omaggi degli ospiti. Settimia si inchinò di fronte alla padrona di casa e a sua figlia, che sorrisero e la imitarono. Quindi si sforzò di sollevare gli occhi sull'uomo che aveva infranto i suoi sogni di gloria.

«Gneo Romilio Rabirio» disse, con voce perfettamente incolore. «Così le voci sono vere: siete tornato.»

Era alto e austero proprio come ricordava. Erano passati anni dall'ultima volta che lo aveva visto e non era cambiato affatto. Le stesse rughe sul volto affilato, lo stesso sguardo d'acciaio.

La stessa voce secca quando rispose: «Il mio compito in Hispania si è concluso con successo.»

«Non ne dubitavo. Qualunque vostra azione è sempre coronata dalla gloria.»

«Gli dèi sono stati benevoli con me. Non altrettanto con la mia famiglia, pare.»

«Rabirio manca molto a tutti noi» fece Settimia, e pestò di nascosto il piede a Vistilia, accanto a lei.

Quella sussultò e le fece eco in tono spento: «Sì, moltissimo.»

Il Vecchio posò lo sguardo su di lei. «Avete una figlia deliziosa. Sono lieto che sia entrata a far parte della mia famiglia.»

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