Capitolo 45

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Aris

Convento di Santa Chiara, Norimberga, 15 giugno 1352

Mi siedo al mio tavolo, in silenzio; accanto a me c'è una ragazza che è arrivata da poco, di cui non ho ancora saputo il nome. Vorrei provare a parlarle, ma lei tiene lo sguardo puntato sulla tavola e ha le labbra sigillate, come tutte le nostre compagne.

Sbuffo appena e mi volto verso il lato opposto del salone, dove mia sorella mangia insieme alle sue consorelle; odio il fatto che ci abbiano separate, da quando ha preso i voti. Ho avuto pochissime occasioni per parlarle da quel momento, più di una settimana fa.

Mi manca tanto.

Ogni situazione difficile mi scivolava addosso senza ferirmi troppo, quando c'era lei accanto a ricordarmi chi ero e da dove provenivo; qui a Norimberga tutte parlano in modo diverso da me, si comportano con più eleganza di me e mantengono un contegno impeccabile in tutti i contesti, come se nella loro testa non ci fosse traccia di un pensiero autonomo.

Mia madre sarebbe felice di sapermi qui?

Non ne sono davvero sicura, anche se mia sorella lo ha sempre sostenuto; d'altronde, fra queste mura ho più di quanto io abbia mai avuto in precedenza, anche se il prezzo da pagare è la cancellazione di ciò che sono stata.

Guardando il mio corpo coperto dalla testa ai piedi da abiti informi e scomodi, il ricordo dell'erba dei prati in cui correvo a perdifiato da mattina a sera mi appare sempre più lontano e sbiadito; sono pronta a rinunciare davvero a tutto questo?

Inspiro a fondo, riportando la mia attenzione sul piatto caldo di fronte a me e congiungendo le mani, unendomi alla preghiera corale che è cominciata mentre ero persa nelle mie riflessioni; colgo senza fatica le occhiatacce che le mie vicine mi scoccano per via della mia distrazioni, ma non do peso ad esse, continuando a sussurrare una litania interminabile di parole dal significato a me sconosciuto.

Quando la preghiera termina, posso finalmente cominciare a mangiare; la porzione è minima, come ogni sera, ma basta quanto meno a non farmi avvertire i morsi della fame durante le veglie notturne.

Persino i più lievi sussurri che si alzano dalle tavolate vengono zittiti prontamente dalle suore addette a controllarci, ma non mi arrendo e mi giro di nuovo verso la ragazza accanto a me.

«Come ti chiami?» le chiedo sottovoce.

Lei si volta appena, guardandomi con gli occhi sgranati dal timore e affrettandosi poi a riportare lo sguardo verso il basso, senza rispondere. Mi mordo il labbro inferiore, frustrata, ma non demordo.

«Io sono Aris» mi presento in un sussurro «e vengo...» faccio per dire, ma vengo interrotta da uno schiaffo deciso sulla mia nuca; chino il capo, senza reagire.

«Vieni dall'inferno, questo è poco ma sicuro» sibila l'anziana suora dietro di me, ritirando la mano; la riconosco dalla voce, senza nemmeno avere il bisogno di girarmi: non ha mai avuto in simpatia, ma negli ultimi mesi ha cominciato a mostrare un particolare fastidio nei miei confronti.

Ignoro il suo commento, socchiudendo gli occhi e concentrandomi nell'immaginare il volto di mia sorella; quanto vorrei che potesse schierarsi al mio fianco e difendermi, invece di starsene lontana da me in un tavolo muto.

«Un'altra parola non sarà tollerata, ragazzina» mi raccomanda intanto la donna, dunque annuisco piano. Ho già scontato fin troppe punizioni a causa della mia disobbedienza, non è il caso di aggiungerne un'altra alla lista.

Non riesco più a sopportare questo posto; sembra sempre più stretto ed ostile, come se chiunque qui dentro non stesse cercando altro che un pretesto per allontanarmi. Cosa ho fatto di tanto sbagliato? Cosa sanno che io non so?

Anche mia sorella percepiva la stessa cosa, soprattutto all'inizio della nostra permanenza nel convento, ma le voci intorno a lei si erano assopite man mano che mostrava la sua indole delicata e malleabile, che le aveva permesso di adattarsi alla perfezione alle condizioni che ci venivano imposte da un giorno con l'altro; non aveva più dovuto subirsi tutte le continue occhiate e le dicerie che invece seguono me da quando ho messo piede qui dentro.

Continuo a sorridere e tentare di fare amicizia a prescindere da ciò, ma so bene di cosa parlano alle mie spalle: mia madre.

Stringo i pugni sotto al tavolo; mia madre avrebbe dato la vita per me e mia sorella, era sempre pronta a sacrificarsi pur di poterci vedere sorridere; ha affrontato da sola sfide che pochi potevano superare, ma non era riuscita a sopravvivere alla peste.

Quando aveva iniziato a mostrare i primi sintomi della malattia nera, non aveva esitato ad allontanarci entrambe e mandarci via, così da proteggerci; non ho avuto modo di starle accanto, mentre si spegneva da sola nella nostra piccola casa, ancora rifiutata da tutti.

In paese, infatti, il giudizio nei suoi confronti era implacabile: una donna non sposata che aveva due figlie generate al di fuori di un rapporto coniugale con un uomo di cui nessuno sapeva nulla equivaleva ai loro occhi ad una puttana di strada. Così la trattavano, fin da quando io e mia sorella eravamo piccole, guardandola con sdegno e aria di superiorità, sputandole addosso incuranti delle sue sofferenze. Non potrei mai perdonarli per quel comportamento, nessuno di loro.

Spero tanto che un giorno mio padre torni e dica a tutti la verità su mia madre, anche se questo non basterà a riportarla al mio fianco; magari, però, potrà portarmi via di qua...

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