Capitolo 48

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Marvin

Scendo le scale buie con passi lenti, reggendo in equilibrio fra le mani il vassoio con il pranzo; le torce si sono spente e la mancanza di finestre rende il tutto ancora più cupo. Sbuffo, sforzandomi a procedere senza esitazione; ho ormai memorizzato la strada, la luce mi è superflua.

Raggiungo le celle in pochi passi, dirigendomi subito verso l'unica occupata: quella di Brandt.

Mi avvicino alle sbarre, appoggiando il pasto per terra, e aspetto che mi noti; ha lo sguardo incollato sulle guardie, ma sembra non metterle nemmeno a fuoco. Tossicchio appena, annunciando così la mia presenza, e lui muove il volto di scatto, con un movimento secco, istintivo. Come un animale in gabbia, sempre in guardia, che non può fidarsi di nessuno.

«Ti ho portato da mangiare» gli spiego, indicando il vassoio. Brandt stringe la mascella in risposta; vedo i muscoli del suo viso contrarsi, mentre mi guarda con sospetto.

Rimango in silenzio, aspettando; le mie mani tremano appena, a causa dell'analisi minuziosa che opera su di me ogni volta che mi presento qui. Nonostante tutto, ancora non sa se può fare affidamento su di me.

Finalmente egli annuisce, seppur senza parlare, dunque faccio scivolare il vassoio nell'apposito spazio sotto la grata di ferro; Brandt si alza piano, muovendosi con fare circospetto e avvicinando a sé il pasto con un piede; fa sempre così, ormai il motivo mi è chiaro: non vuole abbassarsi di fronte a me o alle guardie. Il suo orgoglio persiste persino in questa condizione.

Si lascia cadere a terra, sedendosi e appoggiando la schiena contro la parete umida, e solo allora comincia a mangiare. Distolgo lo sguardo, lasciandogli un briciolo di intimità, e ripongo gli occhi sulle due guardie in fondo al corridoio, le quali stanno approfittando della mia presenza per potersi distrarre e giocare insieme a dadi. Sono annoiati, è chiaro; erano anni che le prigioni del Kaiserburg non erano così vuote.

«Ohi». Sussulto, colto di sorpresa dal sussurro, e mi volto di colpo; le labbra di Brandt si stirano in una sorta di sorriso, vedendo la mia reazione improvvisa, ma i suoi occhi rimangono spenti.

«Dimmi» rispondo però, riavvicinandomi alle sbarre.

Lui indica le guardie con un cenno del capo, scuotendo poi la testa; non vuole averle intorno. Rimango immobile, alternando lo sguardo fra il giovane e i due soldati.

«Come preferisci» accetto però, con un sospiro, e mi faccio coraggio «potreste lasciarmi qualche minuto per parlare con il prigioniero, a nome del conte?» dico ad alta voce, cercando di darmi un contegno sicuro; a giudicare dalla smorfia divertita sul volto di Brandt, non devo esserci riuscito del tutto.

«Mh» replica uno dei due, sbuffando, e mi lancia le chiavi senza una lunga esitazione; l'altro, invece, afferra i dadi, salendo le scale come se stesse aspettando quel momento da ore - e forse è proprio così.

«Fa' attenzione» si raccomanda però il primo, prima di sparire seguendo il secondo. Annuisco al vuoto, stringendo il pugno intorno al mazzo di chiavi rugginose.

«Complimenti» commenta Brandt non appena entrambi si sono allontanati, con la voce roca di chi non pronuncia parola da tempo; è la prima volta che lo sento parlare, in effetti.

«Grazie» rispondo in un sussurro, ancora attonito. Faccio scorrere le dita sulle varie chiavi, fermandomi su quella che apre la cella del ragazzo; il fiato sembra morirmi in gola, avvertendo l'importanza di questo momento.

«Datti una mossa» mi esorta lui, freddo; il suo tono mi fa bloccare sul posto, facendomi realizzare cosa sto facendo.

«Non posso liberarti» replico, piano, guardandolo «il conte mi ucciderebbe».

Il moro solleva le sopracciglia e, inaspettatamente, mi sorride.

«Non mi pare di avertelo chiesto, biondino» ribatte, alzandosi in piedi «entra dentro, così che io possa parlarti faccia a faccia».

Una morsa mi aggredisce lo stomaco nel sentire le sue parole; posso fidarmi di lui?

«Non ti mangerò, lo prometto» aggiunge Brandt, intuendo forse i miei pensieri. Avvampo, facendo un passo in avanti e infilando la chiave nella serratura senza concedermi altri ripensamenti.

«Benvenuto nella mia umile dimora» esordisce lui in tono scherzoso, aprendo le braccia e venendomi incontro, seppur rimanendo a distanza.

«Che cosa volevi dirmi?» gli chiedo, rimanendo vicino all'uscita della cella; ho ripreso in mano il mazzo di chiavi e lo inserisco al sicuro nella mia tasca, tenendovi sopra la mano destra per evitare rischi.

«Quanto tempo vuole tenermi qui?» mi domanda lui, sollevando il mento e incrociando le braccia. I suoi capelli castani ricadono spettinati sul suo volto affilato, mentre la barba incolta gli incornicia la mascella ben delineata.

«Rimarrai qui finché là fuori non si saranno placate le acque; il consiglio gli sta dando del filo da torcere, non può rilasciarti ora» rispondo con incertezza; nemmeno io ho idea di cosa si stia agitando nella mente del conte, ma posso provare a mettermi nei suoi panni e ad immaginare cosa possa avere in mente.

«Chi è quella ragazza? Perché era rinchiusa sulla torre?» prosegue Brandt, avanzando ancora nella mia direzione.

«Si chiama Aris. Non posso dirti altro» sollevo le mani in segno di impotenza. So che Finn non mi perdonerebbe mai se gli rivelassi tutto, ma soprattutto so che non potrebbe più lasciarlo andare; un segreto del genere non va condiviso.

Il ragazzo sbuffa, sollevando lo sguardo verso il soffitto.

«È ancora viva, vero? Il conte non le ha fatto del male?» insiste però, riabbassando gli occhi su di me.

Annuisco piano, vedendo subito il sollievo comparire sul suo volto preoccupato.

«Non le ha fatto del male, hai la mia parola. Mi occupo personalmente di lei, proprio come faccio con te» spiego a bassa voce «non devi temere, il conte tiene a voi due. Nessuno dei due subirà nulla» assicuro. Vorrei riuscire a convincermene appieno io stesso.

«Tu gli sei leale» quella di Brandt non è una domanda, quanto più una constatazione; colgo nella sua voce un lieve velo accusatorio che mi colpisce come una lama: ancora non lo conosco bene, eppure il pensiero che possa avere di me la stessa idea che ha del conte mi è doloroso.

«Sono il suo scudiero» ribatto, quasi come giustificazione; non voglio che mi ritenga succube a Finn, non anche lui.

«Servi un mostro» replica lui, sollevando le sopracciglia «ritieni che sia giusto?».

Scuoto la testa, facendo un passo indietro.

«Non servo un mostro ma un uomo, un uomo che per la sua gente darebbe la vita; si sacrificherebbe per me e anche per te, se ce ne fosse bisogno» dichiaro, guardandolo con decisione «non concordo con ogni sua idea - come potrei? – e il Signore Dio solo sa quanto odio quando si sporca le mani di sangue, ma so che lo fa per il bene più alto. Come potrebbe essere un mostro?» gesticolo infervorato, cercando di esprimere a parole la turbolenza che mi anima.

So che Finn sbaglia, so che Brandt non dovrebbe stare rinchiuso, ma il conte ha le sue ragioni; non sta a me giudicarlo ora.

Il giovane di fronte a me sbuffa, scuotendo la testa.

«Va bene» dice, voltandosi verso il muro «mi auguro che ci rivedremo, scudiero di von Hallerstein». Il suo saluto è chiaro, dunque raccolgo il vassoio vuoto da terra e mi congedo con un cenno del capo che lui nemmeno vede.

«Passerò fra qualche ora per portarti la cena» sussurro, prima di chiudere la serratura. Appoggio il mazzo di chiavi sul tavolo delle guardie, voltandomi poi verso le scale.

Qualcosa nel fondo del mio petto sembra muoversi più velocemente per qualche istante, quando sento una risposta sussurrata riecheggiare nel basso corridoio:

«Ci conto».

Sorrido tra me e me, affrettando il passo e tornando all'aria aperta.

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