33.Gabriel

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Le accarezzai il viso con un gesto delicato, cercando di trattenere la preoccupazione che mi tormentava. "Starai bene senza di me?" domandai, fissandola con uno sguardo apprensivo. Lasciarla da sola dopo quello che era successo non mi entusiasmava, ma sapevo che aveva tutto il necessario per proteggersi.
Lei sorrise dolcemente, posando una mano sopra la mia. "Sì, amore. Adesso chiamo anche le ragazze, così mi fanno compagnia." Solo l'idea che fosse circondata dalle sue amiche mi rassicurava. Sapevo che in loro compagnia sarebbe stata più al sicuro.
Con un cenno, le baciai la fronte e mi avviai verso il piano di sopra. Entrando in camera, aprii l'armadio e scelsi il mio completo nero, il preferito per le occasioni formali. Mi misi davanti allo specchio, sistemando la cravatta con cura.

Stavo finendo di sistemare la cravatta, concentrato sui dettagli, quando sentii le sue mani delicate che mi accarezzavano le spalle, risalendo piano fino al colletto. Mi girai verso di lei, trovandomi di fronte al suo sorriso e a quello sguardo che mi mandava fuori ogni volta.
"Sai che sei proprio bello vestito così elegante?" disse, aggiustandomi il colletto della camicia con cura, come se volesse rendermi perfetto.
Sorrisi divertito, cogliendo al volo l'occasione per provocarla. "Ah sì? Sono bello?" risposi, avvicinandomi un po' di più. "Tu lo sei anche senza vestiti." aggiunsi con tono malizioso, lasciando che il rossore le colorasse le guance.
"Sei proprio scemo." ribatté, provando a mascherare l'imbarazzo, ma io non persi un attimo. Le riempii il viso di piccoli baci, uno dopo l'altro, incapace di resistere a quella sua espressione arrossata che mi faceva impazzire ogni volta.
"Dai basta, devi andare o Marcus ti uccide," disse ridendo e cercando di sottrarsi ai miei baci, ma non riusciva a nascondere quel sorriso che amavo.
Scendemmo insieme al piano di sotto, mano nella mano, in silenzio. La guardai un'ultima volta prima di uscire, memorizzando ogni dettaglio di quel suo volto sereno, quasi come se non volessi lasciarla. Le sistemai una ciocca di capelli dietro l'orecchio, lasciando scorrere il mio pollice sulla sua guancia.
"Stai tranquilla, torno presto," sussurrai, con un ultimo bacio sulla fronte.
Mi voltai e uscii di casa, chiudendo la porta dietro di me, ma con il pensiero ancora rivolto a lei e a quello che stavamo costruendo insieme.

Appena entrai nell'auto, la calma che sentivo in casa svanì, lasciando spazio a una sensazione di vuoto che si annidava nel petto. Girai le chiavi nel cruscotto, il rombo del motore coprì il silenzio attorno, ma dentro di me rimase quel ronzio persistente, un pensiero fisso rivolto a lei. Era più di una preoccupazione: era un richiamo sottile, come se qualcosa mi trattenesse da tornare subito da lei e proteggerla a ogni costo.

Le immagini di lei, delle sue risate e dei suoi sguardi timidi, mi seguivano lungo tutta la strada, facendomi scivolare in una strana nostalgia. Ogni semaforo rosso mi dava il tempo di ripensare alla delicatezza con cui mi aveva sistemato la cravatta, al modo in cui aveva sorriso nel salutarmi e al leggero rossore che si era formato sulle sue guance quando l'avevo presa in giro. Sapevo che, una volta arrivato al tribunale, avrei dovuto seppellire tutto questo sotto una maschera di imperturbabile professionalità, concentrandomi esclusivamente su ciò che mi aspettava. Eppure, sentivo che stavolta sarebbe stato più difficile del solito.

Finalmente parcheggiai di fronte al grande edificio grigio del tribunale. Mi fermai un attimo, stringendo forte il volante, come se in quel gesto potessi trovare la forza per affrontare la giornata. Feci un grande respiro mentre chiudevo lo sportello e mi incamminai verso l'edificio, l'ansia mi stringeva il petto, ogni passo sembrava scandire il ritmo dei miei pensieri. Il peso di quel caso mi schiacciava, e non potevo fare a meno di chiedermi: sarei stato all'altezza? Sentivo il cuore battere più forte a ogni metro, come se quel dubbio, quella paura di fallire, avesse trovato modo di insinuarsi in ogni fibra del mio corpo.

Una volta dentro, il suono dei miei passi riecheggiava nei corridoi freddi del tribunale, amplificando la tensione. Ogni dettaglio del caso mi passava davanti agli occhi, come una serie di immagini che non potevo ignorare. C'era troppo in gioco, e anche se all'esterno dovevo apparire sicuro, dentro di me sentivo il peso di un mondo intero. Avevo lavorato duramente per arrivare lì, e quel giorno doveva essere la prova della mia determinazione.

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