1. Strano, ma vero

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Non capì cosa successe.
Sentì qualcosa di caldo bagnargli prima la bocca, poi il mento e gocciolare a terra: stava sanguinando.
Inciampò, cadde e non vide più niente.
Ethan chiuse gli occhi e calò il buio.

Era tutto iniziato appena due settimane prima, in una fresca giornata di primavera: Ethan stava tornando da scuola con la sua migliore amica, Anne, come gli era di abitudine fare da quasi due anni, lungo i viali costeggiati da alti pioppi sotto il cielo sempre nuvoloso di Londra. Aveva lo zaino in spalla, il cellulare in tasca e il capo leggermente piegato verso gli innumerevoli negozi che sorgevano sul marciapiede di pietra chiara.

Fu in quel momento che lo vide.
Era in un negozio d'alta moda che vendeva capi d'abbigliamento maschile che Ethan poteva solo sperare di vedere, anche perché non si sarebbe mai vestito in quel modo: preferiva di gran lunga le felpe e i jeans alle camicie dai gemelli laccati in oro personalizzati e le giacche scure di seta. In fondo era solo un ragazzo, cosa mai avrebbe potuto desiderare, con i suoi miseri quindici anni? Niente di più di ciò che già non possedesse, ma dopo quell'incontro Ethan non ne era più tanto sicuro.

I due ragazzi si trovavano di fronte alla vetrina trasparente di un negozio piccolo, ma dagli scaffali e il parquet in legno chiaro che riflettevano e sfruttavano al meglio la luce disponibile. All'interno s'intravedevano due uomini, di cui uno dietro il bancone, subito associato al commesso. L'uomo che dei due avrebbe dovuto essere il cliente, però, trasmetteva una strana sensazione ad Ethan: come se la sua faccia gli fosse nota, nonostante sapesse che non era originario di Bayswater, il quartiere dove Ethan risiedeva. Il ragazzo arrestò lentamente il passo, chiudendo le palpebre per cercare di scorgere l'uomo al di là dei vetri lucidi: portava i capelli castani legati in una bandana rossa, una camicia bianca di lino slacciata fino al terzo bottone e gli occhiali da sole neri appoggiati sulla scollatura di quest'ultima.

- Anne, guarda quell'uomo... Non ti sembra familiare? - non riuscì a trattenersi Ethan dal far notare all'amica la persona che aveva appena trovato.
- Che cosa c'è, Ethan? Di chi stai... Oh. - Anne strizzò le palpebre un paio di volte e si diede un pizzicotto sul braccio, per assicurarsi che non stesse sognando.
- Sembra un modello o che so io... È bello, vero? -, tentò inutilmente di parlare il ragazzo. L'amica, rimasta imbambolata per una trentina di secondi a fissare l'uomo, lo afferrò per la manica della felpa e lo tirò all'interno del negozio, senza che Ethan avesse nemmeno il tempo di protestare.

Anne raggiunse quell'uomo misterioso nel momento stesso in cui porse al commesso la sua carta di credito, mentre sul bancone era posata una busta bianca con i lacci neri.
- S-salve - sentenziò la ragazza in un bagno di sudore. Il suo stupore si era rapidamente trasformato in nervosismo ed imbarazzo, ed Ethan ancora non capiva il perché.
L'uomo si voltò, lasciando che i due ragazzi si ipnotizzassero con l'azzurro ghiaccio dei suoi occhi.
- L-lei è davvero...- continuò Anne balbettando. L'uomo ridacchiò compostamente mentre stringeva la mano della ragazza.
- Rick Jack al suo servizio, mia cara. - Si piegò in un lieve inchino e sorrise con quei denti così bianchi che sarebbero bastati ad alimentare un impianto fotovoltaico.
Ethan corrucciò le sopracciglia, guardando l'amica con un interrogativo in volto:
- Scusa, chi? - le sussurrò all'orecchio.
- È quel modello statunitense famosissimo, quello della pubblicità... Non ricordi? - mormorò a sua volta, imbarazzata.
- Perdoni il mio amico, non era sua intenzione dimenticarsi di lei. Le prometto che non accadrà più. - chiarì impacciata, mentre Ethan, deluso, si chiedeva cosa avesse fatto.
- Va bene, non ti preoccupare. Allora, vuoi un autografo, una foto, qualcosa? Ho una decina di minuti liberi ancora da spendere con voi...
Anne fissò Ethan eccitata, che si era imbambolato ad osservare quel presuntuoso modello, e gli tirò poi una gomitata per far sì che rispondesse insieme a lei di sì.

Rick Jack sorrise compiaciuto, mentre usciva dal locale lasciando il commesso senza dire nulla.
Afferrò dalla sua borsa di cuoio due cartoline, chiedendo poco gentilmente una penna ad Ethan. Poi, sul cartoncino bianco, scribacchiò una dedica molto veloce per Anne ed una altrettanto scontata per Ethan, e con una macchinetta fotografica usa e getta scattò qualche foto a se stesso con i due ragazzi ai lati.
E senza dire una parola, lanciò un'occhiata fugace al suo orologio sul polso sinistro e li lasciò da soli sul marciapiede solitario.

I due ragazzi esitarono alcuni secondi prima di proseguire ognuno per la propria strada: il giovane non la finiva di ammirare spaesato quell'uomo che, seppur arrogante, aveva mosso qualcosa dentro di lui, lo aveva cambiato in modo irreversibile. Le sue gambe, fasciate dai jeans scuri, lo rendevano semplicemente stupendo. E il suo portamento, il suo modo di camminare, l'atteggiamento elegante che possedeva lo rendevano affascinante... ed Ethan ne era attratto. Non credeva fosse una cosa normale, pensò che fosse solo la stanchezza di una lunga giornata di scuola.

Era ancora per strada, da poco solo. Aveva lasciato Anne poche decine di metri prima, dopo averla vista svoltare ad un incrocio e dirigersi verso casa. Il ragazzo aveva proseguito dritto, oltre al piccolo parco del quartiere, dove spesso trascorreva interi pomeriggi a leggere su una panchina davanti al laghetto cristallino, quando il tempo glielo permetteva, cullato dal dolce fruscio della brezza fresca che si incanalava tra i rami dei pioppi di Londra.

Si guardava la punta delle scarpe da tennis rosse, ripensando a come avrebbe potuto anche solo avvicinarsi ad un uomo del livello di Rick Jack; semplicemente, non poteva: non era molto alto, sfiorava appena il metro e settanta, ma era così magro da sembrare ancora più piccolo; i lineamenti ancora piuttosto infantili, poi, rendevano il suo faccino più angelico, sebbene già lo fosse, con i suoi occhi di un azzurro intenso e i capelli di un color cioccolato che gli coprivano ormai anche le orecchie. Non era niente in confronto al suo gemello. Si chiamava Ryan, ed era nato solo pochi minuti prima di lui, ma mostrava una sicurezza che Ethan sapeva di non avere: Ryan lo superava in altezza di almeno cinque centimetri, e al contrario del minore, aveva le spalle più larghe del bacino, i capelli corti -o almeno della lunghezza adatta ad un ragazzo- e i lineamenti più marcati, maturi, come se quei pochi minuti in più gli avessero permesso di avere una prospettiva totalmente diversa.

Ethan era rimasto a fantasticare su quell'uomo, si era paragonato a suo fratello come se tra i due ci fosse un abisso, come se rispetto ad ogni ragazzo che avesse mai incontrato lui non valesse nulla. Teneva il capo chino, il mento quasi a toccare il petto, gli occhi semichiusi e le mani in tasca. Percorreva quella strada lentamente e al bordo del marciapiede. Era così preso dai suoi pensieri, dalle sue riflessioni da non vedere un lampione scuro che gli ostacolava il percorso sul marciapiede ampio che lo conduceva a casa.
Ma quando se ne accorse era troppo tardi per rimediare. Prese in pieno il palo di ferro battuto, sbattendo la fronte ed indietreggiando fino a sbilanciarsi all'indietro e cadere, con il solo zaino sulle spalle ad attutire il colpo.
Gemette di dolore e si massaggiò la fronte dolorante. Fissò il lampione davanti a sé con sguardo truce, come se fosse sua la colpa di quanto appena accaduto, come se fosse lui ad essere fuori posto, e non lo stesso Ethan, che oltre ad essere impacciato nei modi non veniva neanche apprezzato dai suoi coetanei.

–Sta' attento, sfigato–. Come a confermare e rafforzare il pensiero del lampione –che nella mente del castano aveva una propria opinione e in quel momento stava ridendo della sua sbadataggine- un gruppo di ragazzi gli passò accanto, ridendo e calpestandolo.
Il leader del gruppo, Butch Norrison, un teppistello del penultimo anno, lo guardò sprezzante e prima di proseguire per la sua strada sputò a terra, mancando di pochi centimetri le scarpe di tela del povero Ethan.

Il ragazzo si alzò, ancora dolorante per l'impatto con il terreno e, raccogliendo lo zaino da terra, si avviò lungo la stessa strada percorsa dal gruppo, osservandoli alcune decine di metri indietro.
Ethan tentò di contarli mentalmente, ricordando che di quel fastidioso gruppo erano parte cinque membri, di cui non sapeva nulla se non il nome.
In quell'occasione, però, come avrebbe potuto immaginare, erano solo in quattro. Il quinto ragazzo, il biondino neutrale, che Ethan in un anno e mezzo di scuola non aveva mai visto partecipare alle risse, si era prevedibilmente dato alla fuga, come del resto aveva sempre fatto. Frequentava quei quattro ragazzi seppur non condividendo il loro pensiero. Per questo Ethan lo odiava. Era sicuro che sarebbe stato abbastanza forte da difenderlo, in quelle occasioni, eppure niente, il suo egoismo era più forte di qualsiasi violenza. Lo maledisse mentalmente per l'ennesima volta e riprese a camminare, prestando maggiore attenzione ai diabolici lampioni che si presentavano sulla sua via.
Accelerò il passo, si affrettò ad aprire il pesante portone del suo palazzo e a chiudersi dentro; salì rapidamente le scale, estrasse la chiave dalla tasca anteriore del suo zaino e la infilò nella toppa della porta. Si fiondò in camera sua e senza togliersi nemmeno le scarpe si accasciò sul letto a braccia aperte e occhi chiusi. Cosa succedeva?

REVISIONATO

Ethan, io...Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora