2. Frustrazione

10.2K 478 115
                                    

Ethan si trovava conteso tra due presenze, che al suo interno gli sussurravano tentazioni e lo confondevano più di quanto lui già non fosse.
Da una parte, una voce interna gli suggeriva che era tutto incredibilmente normale, che era la cosa giusta; dall'altra, un'anima più scura, ma tremolante, tentava invano di convincere l'avversaria che si trattava solo di un errore, di un momento di sconforto, ma che si sarebbe potuto superare con il tempo.

Ethan tirò un pugno al muro, sopra la testiera del suo letto, cacciando poi un urlo per il dolore. Si accasciò sul materasso, tenendo la mano sinistra premuta nella destra, strinse i denti e cercò di trattenersi dal rilasciare urli poco virili in presenza di Ryan nella stanza accanto.

Benché fosse dura da ammettere, l'idea che potesse esserci qualcosa di attraente, di interessante nei ragazzi lo aveva sempre riguardato, per quanto ricordasse. Non lo aveva mai ammesso pienamente nemmeno a se stesso, ma la prospettiva che potesse iniziare a farlo gli si era riproposta pesantemente già da un po', ad intervalli regolari, ogni volta più ingente e martellante.
Ethan si premette le mani sulle tempie, ripensando a dove potesse aver visto nella sua personalità almeno uno straccio di eterosessualità tale da confonderlo e disorientarlo. Cosa aveva da capire? Era sempre stato attratto dagli uomini, sin dalla scuola primaria, dove sentiva qualcosa di insolito per il suo amico Kevin. Non era mai stato chiaro sui suoi sentimenti, riuscendo a malapena a percepirli, seppur nella misura sbagliata. Si era reso conto solo in quel momento del giusto nome da dare alle cose.
— Sono gay ed è giusto così, credo. In fondo, è solo un altro modo per descrivere il sentimento comune che la gente chiama amore. Non dovrebbe essere sbagliato, no? — Ripeté un paio di volte davanti allo specchio nel suo armadio. Gli dava sicurezza, come se vedere il suo volto più deciso durante l'esposizione bastasse a renderlo fiero di sé.

Ethan si osservò le mani, chiedendosi se avessero commesso qualcosa di così impuro da dover essere punite, ma non gli veniva in mente nulla di rilevante. Forse poteva accettarsi, almeno lui. Forse andava davvero bene così. Scosse la testa e cercò di scacciare quei pensieri, poiché non portavano a nulla di concreto, e al giovane non piacevano le perdite di tempo.
"Va tutto splendidamente, tranne per il fatto che mi sento più solo di prima."
Sospirò, abbandonandosi alla sua triste realtà; poi, si sedette sulla sedia e afferrò il suo portatile, deciso a dimenticare.
In quel momento il fratello irruppe nella camera, senza troppe domande, si avvicinò all'armadio e cominciò a frugare nei cassetti di Ethan, tirando fuori gli indumenti del minore e lanciandoli sul letto alla rinfusa.
— Che ti serve, Ryan? — domandò Ethan allarmato, ma non troppo diretto.
— Sto cercando una canottiera nera. Ne hai una in più? — Il minore indicò l'unico cassetto nel quale Ryan non aveva ancora cercato. L'altro ridacchiò, afferrò la canotta e salutò il fratello, rifugiandosi nuovamente nella propria stanza.

Ethan sospirò sconfitto e aprì una nuova scheda internet. Inserì un link precedentemente copiato, così lungo da non entrare per intero nel riquadro per la ricerca, accedette ad un sito dallo sfondo in nero e mogano e digitò il suo username e la password. Entrando nel suo account, comparvero sul monitor due inviti ad una partita di scacchi: il primo da un nuovo utente, a lui sconosciuto e quindi poco esperto; il secondo, invece, dal veterano maggiormente apprezzato da Ethan. La celebre immagine del profilo nera, il nome utilizzato palesemente falso, la tecnica, la strategia degna di un professionista: Orlando Moore. La cosa più stupefacente? Aveva appena sedici anni.
Ethan accettò la sfida e spostò la prima pedina, aspettando con ansia che il temerario avversario compisse la propria mossa. Muoveva un pedone per volta secondo il suo schema, che raramente falliva: tranne con lui. Orlando Moore conosceva il suo gioco, le sette mosse che gli consentivano di avere il controllo di buona parte della scacchiera.

Quella partita, però, non durò a lungo. L'armonia che si era creata tra Ethan e il proprio avversario storico era stata interrotta da una chiamata da parte di Anne, che aveva invitato il ragazzo a vedersi con lei quello stesso pomeriggio.
— Veramente starei finendo una partita di scacchi e... — aveva provato a liquidarla Ethan, con scarso successo.
— Non mi interessa —, aveva tagliato corto la ragazza —, ho bisogno di parlarti — e con quell'affermazione aveva riagganciato, senza lasciare ad Ethan il tempo di ribattere.

Il giovane dagli occhi di cielo abbandonò amaramente la gara, spense il computer e si infilò le scarpe, prese rapidamente dalla cassettiera del suo armadio, si infilò la giacca di jeans e, salutato il fratello, chiuse dietro di sé il portone del suo appartamento, precipitandosi dalla sua migliore amica.
Mentre scendeva le scale si posizionò le cuffie sul capo e scelse una delle sue playlist preferite, beandosi della voce di Bono, degli U2, come se nient'altro importasse in quel momento. Non sapeva esattamente cosa servisse ad Anne, perché ci fosse tanta urgenza nel suo tono di voce, nell'atteggiamento sbrigativo con il quale si era rivolta al ragazzo. Ma Ethan preferiva di gran lunga tutto ciò alla perdita di un'amica, per questo non dava peso ai suoi difetti.
Mentre si recava al luogo dell'incontro, sotto il grande pioppo del giardino sul fiume, il ragazzo dalla chioma bruna teneva lo sguardo fisso sopra di sé, come se seguisse una linea aerea immaginaria per arrivare al piccolo parco dov'era solito trascorrere interi pomeriggi, da solo o in compagnia.

Alla vista dell'amica le corse incontro, felice di vederla: la ragazza, seduta su una panchina, accarezzava il legno della stessa accanto a lei, invitando Ethan a sedersi.
L'atmosfera frizzantina, pungente, era percepita tramite ogni parte del corpo lasciata libera dalla sua giacca felpata; la brezza leggera, invece, sferzava tra i capelli di Ethan, spesso coprendogli la vista e costringendolo a compiere i movimenti più impensabili per scostarseli ed evitare di inciampare e cadere nel Tamigi, che scorreva impetuoso sotto al ponte che il ragazzo stava attraversando.

Sempre più vicino, i contorni dell'amica si fecero più nitidi: Anne era seduta a gambe incrociate, lo smartphone ora in mano e un sorriso malsano stampato in volto.
Ethan non si poteva dire intimidito da quell'espressione, ma una piccola sfumatura d'ansia si era aggiunta alla sua: il tono d'urgenza con cui l'amica aveva insistito perché lo raggiungesse immediatamente, la priorità che voleva desse alla faccenda, quel sorriso maligno... il ragazzo non voleva sapere da cosa era dato quel suo insolito presentimento.
Quando il giovane dagli occhi di cielo raggiunse Anne, quest'ultima alzò lo sguardo, rivelando quegli occhi grigi di tempesta e portatori di novità.
–Siediti, Ethan, dobbiamo parlare– fu tutto ciò che disse. Costrinse il ragazzo a sedersi accanto a lei e sospirò, trasmettendo ad Ethan per la prima volta anche la vera paura.

REVISIONATO✔

Ethan, io...Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora