Capitolo 3

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Apro gli occhi e sono coperta da una giacca. Inspiro il profumo familiare del ragazzo che amo e mi alzo a metà busto per cercarlo con lo sguardo. Tra le sue braccia non ho avuto nessun incubo. Spero che anche lui abbia dormito almeno un pò.
Vago con lo sguardo e poi lo vedo. Sta parlando con un dottore. Ha il viso teso ed è chiaramente nervoso. Mi alzo e lo raggiungo. Stringo la sua mano facendolo voltare. Mi sorride e lo stesso fa il dottore.
«Come sta?», domando assonnata e con voce ancora roca. Paker mi abbraccia da dietro mentre il medico inizia a parlare.
«Stavo dicendo a suo marito...»
«Oh, noi non...», mordo la lingua e poi sorrido imbarazzata e leggermente rossa in viso.
«Sua madre starà meglio. Il pericolo è scampato ma ha avuto un ictus quindi dovrà curarsi, prendere le pillole e fare fiseoterapia visto che non riesce a muovere bene il braccio sinistro. Tra poco potete vederla». Si allontana e mi volto verso Parker per dargli un affettuoso buongiorno con un bacio.
«Come stai?»
«Sollevato ma ancora un pò preoccupato per lei. Potrebbe capitare ancora.»
Lo abbraccio alzandomi sulle punte e stampo un altro bacio sulle sue labbra. «Cerca di non farle notare che sei preoccupato. Andrà tutto bene», mormoro.
L'infermiera ci porta nella piccola stanza dove la signora Johansson è sdraiata. E' vigile e attenta e quando vede entrare il figlio, sorride. Si nota subito che qualcosa l'ha colpita a livello fisico. Per il resto è la solita donna allegra e furba. Rimango in disparte per lasciarli salutare.
«Ciao mamma», le stampa un bacio sulla fronte.
La signora Johansson mi rivolge un sorriso e mi fa cenno di avvicinarmi. Abbasso il viso e la abbraccio come poco prima ha fatto Parker. «E' un piacere rivederti Emma».
Mi domando subito se sia vero o è solo l'effetto delle medicine.
«Dov'è tuo padre? tua sorella?»
«Papà era stanco e l'ho mandato a casa. Mia sorella arriverà oggi, il piccolo aveva la febbre.»
La donna annuisce poi chiede un bicchiere d'acqua. «Mi terrano ancora in questo buco. Mi annoierò parecchio», borbotta.
«Vado a prenderti un caffè!» Mi incammino verso la caffetteria e aspetto il mio turno. Rifletto sul fatto che la vita sia abbastanza fragile. Ne abbiamo una sola eppure continuiamo ad attendere anzichè agire per non avere rimpianti. Frugo dentro la borsa e chiamo Lexa per avvisarla dell'accaduto e che con ogni probabilità non potrò andare al servizio. Lei mi informa che hanno posticipato il servizio e domanda se ho bisogno di qualcosa. La rassicuro mentre ritorno verso la stanza. La porta è socchiusa e sento la voce della donna. Mi fermo un momento indecisa se interrompere o meno il momento di conversazione con il figlio.
«Non glielo hai ancora chiesto? Che aspetti figlio mio, che qualcuno ti anticipi?», ride.
«Non credo sia il momento. Dopo quello che ha passato e che le ho fatto passare...»
«Smetti di pensare e agisci figliolo...»
Decido di bussare e quando entro i due si azzittiscono. Porgo il caffè a Parker e poi la rivista che ho preso alla madre. Lei quasi strilla entusiasta perchè si stava proprio annoiando.
Mi siedo in disparte e guardo fuori dalla finestra mentre i due chiacchierano sul tempo, sulla politica, su alcuni eventi. Più tardi arrivano anche il marito e la figlia la quale mi saluta tranquilla. Per fortuna ha lasciato a casa la sua ascia di guerra. Non avrei saputo come ribattere, non mi sento poi così in forma per un possibile litigio. I bambini mi abbracciano e con educazione e senza fare rumore si mettono a giocare sul letto libero.
Mi alzo e vado a fare una passeggiata. Li lascio soli perchè capisco che hanno bisogno di quei momenti.
Esco fuori dall'ospedale e alzo il viso verso il sole. Mi abbraccio nonostante non ci sia freddo ma io lo sento dentro, nelle ossa. E' una strana sensazione. Entrare in un ospedale, rievoca dentro di me parecchie strane emozioni e anche brutti ricordi.
«Signorina?»
Mi volto e il medico di prima mi guarda con un sorriso timido. E' un ragazzo alto, moro e attraente. «Si?»
«Si sente bene? E' un pò pallida». Si avvicina sfiorando le mie palpebre.
«Entrare in un ospedale ha un certo effetto su di me. Sto bene, non si preoccupi», replico timida.
«Le va il pranzo?», domanda indicando il piccolo ristorante dell'ospedale.
Annuisco e lo seguo un pò in imbarazzo. Mi porge un vassoio e lo riempio di cibo che quasi sicuramente non mangerò.
«L'ho riconosciuta sa?», indica un cartellone a poca distanza mentre ci sediamo ad uno dei tavoli liberi.
Sorrido portando una ciocca dietro l'orecchio. «Non mi abituerò mai sa?», mando giù una manciata di pasta. E' gustosa ma non ho molta fame a dire il vero.
«Suo marito è proprio un tipo diretto e autoritario!»
Rido. «Non è mio marito! E' il mio ragazzo e comunque si, è abbastanza diretto vista la sua professione. Spero non l'abbia trattata male...»
«Sono abituato a questo tipo di persone. Anche lei a quanto pare.»
«Oh si. Sono pure uscita dalla stanza, tanto sono abituata.» Ridiamo.
Mentre percorriamo il corridoio per raggiungere la stanza il dottore continua a sorridere e a guardarmi poi saluta due delle colleghe che arrossiscono di fronte al suo sguardo. Capisco che è molto ricercato in questo ospedale. Questo oltre ad incuriosirmi mi fa imbarazzare ulteriormente.
Dalla porta esce Parker che ci becca mentre ci fermiamo. «Ah sei qui? Potresti andare a prendermi un caffè?», si accorge del dottore e fa una smorfia.
«Hai riacquistato colore quindi posso allontanarmi», il medico ridacchia sotto i baffi.
Parker inarca un sopracciglio. «Cosa è successo?»
«Sua moglie rischiava di svenire e così le ho offerto il pranzo assicurandomi che questo non accadesse. Si figuri. E' fortunato sa?» Gli da una pacca sulla spalla e se ne va fischiettando.
Parker diventa rosso dalla rabbia e poi mi guarda serio e la sua espressione si addolcisce. «Stai bene?»
«Si», sistemo la tracolla della borsa sulla spalla.
«Perchè non mi hai detto che stavi male?»
«Perchè non stavo male. Mi ha vista fuori e per lui ero pallida. Non ho fatto colazione così ho accettato il pranzo. Allora? Caffè?», mi incammino lasciandolo inebetito sulla soglia.
Aspetto la lunga fila e poi prendo dei caffè. Busso alla porta ed entro con degli snack per i bambini che apprezzano molto e con le bevande per gli adulti.
«Ti senti bene?», domanda premuroso Parker.
«Si, sto benissimo. Tu invece?», passo la mano sulla sua fronte.
Tutti ci guardano curiosi e attenti. «Mi sono persa qualcosa?», domando interdetta.
«Niente di speciale tesoro. Qui ci si annoia. Per fortuna mi hai portato questa rivista o sarei impazzita!» Sorride miss Johansson. Il suo sguardo non mi piace affatto. Che cosa ha in mente?
«Se vuole domani le porto quelle di moda. Dovrei passare da casa per cambiarmi e anche tu dovresti», mi rivolgo a Parker.
«Non vado via», sorseggia il suo caffè e poi mi fa sedere sulle sue gambe.
«Non sei stanco? Hai bisogno di dormire». Nega la testa e allontano il caffè dalle sue labbra. «Dovresti anche mangiare.»
«Sto bene Emma»
«Ok, allora ti porterò io qualcosa di pulito da mettere.» Guardo la sorella. «Vuoi che porti con me i bambini? In casa ho dei letti in più per le evenienze. Starebbero più comodi. Sempre che per te non sia un problema...»
La sorella guarda il marito poi mi sorride troppo gentilmente. «Si, non voglio che stiano qui dentro tutto il giorno. Potresti portare anche a noi qualcosa da mangiare domani? Per questa sera ci arrangiamo.»
Annuisco poi preparo una lista delle cose che servono. Parker chiama il suo autista per passarmi a prendere e sua sorella avverte i bambini ammonendoli e ordinando loro di non farmi arrabbiare e di non fare i capricci in sua assenza, soprattutto di ascoltarmi.
Dopo avere salutato tutti, Parker ci accompagna all'auto. Mi abbraccia d'impulso. «Grazie», sussurra sulla mia spalla.
«Di cosa?», gli stampo un bacio sulle labbra. «Ci sentiamo dopo. Se ti serve qualcos'altro chiama.»
Mi afferra di nuovo prima che io possa entrare in auto e mi bacia con impeto suscitando degli strilli da parte dei nipoti. «Ti amo.»
Gli do un pizzicotto sulla guancia. «Dormi un pò questa notte. Ti amo.»
Entro in auto e mi lascio alle spalle la strana giornata trascorsa in ospedale.

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