Capitolo 58

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Non riesco proprio a dominare l'ansia, l'agitazione e il panico mentre scendo dall'aereo e corro verso il primo taxi libero che vedo. Un ragazzo nello stesso istante va per aprire la portiera ma non appena vede me, il modo in cui sono ridotta, mi fa cenno di salire. Faccio pena anche a me stessa ma accetto volentieri, senza forza di lottare per un dannato taxi con uno sconosciuto. Come sono arrivata fino a questo punto?
Ah già, quella maledetta chiamata da parte del dottor Green è riuscita a stravolgere la mia serata e a scuotere il mio mondo. Cosa devo aspettarmi? Soffrirò ancora, lo so, me lo sento.
«Dove vi porto signori?», chiede il tassista con troppa pazienza mentre dietro una lunga fila attende la nostra partenza.
Rispondo meccanicamente, non sto a sentire il ragazzo che con gentilezza sta condividendo la corsa con me. Gli occhi bruciano e sento lo squarcio sul petto aperto ed esposto. Singhiozzo un paio di volte mentre stringo con forza la borsa e il fazzoletto che qualcuno mi ha offerto sull'aereo mentre continuavo a piangere in silenzio e di tanto in tanto singhiozzavo sonoramente sentendo un dolore lancinante è una paura tremenda. Non so cosa farò quando sarò arrivata. So solo che non riesco a capacitarmi. Come ha potuto? Come?
Il taxi si ferma proprio davanti all'ospedale. Pago velocemente senza preoccuparmi del resto, ringrazio il ragazzo il quale mi augura buona fortuna. Con il cuore in gola, il passo pesante e barcollante, avanzo verso l'entrata.
Chiedo indicazioni e prima di superare la sala d'attesa, trovo un bagno. Chiudo la porta a chiave, sciacquo il viso appoggiandomi per un attimo con i palmi contro il lavandino, cambio gli indumenti e cerco anche se inutilmente di frenare l'ansia che continua ad attanagliarmi. Rischio di perdere il controllo. Il mondo gira e la nausea prende per un momento il sopravvento. Quando credo di essere pronta, esco dal bagno.
Ci sono tante persone sedute. Alcune tristi, altre pensierose, altre ancora felici. Supero la sala velocemente, trascinando dietro la valigia come se avessi legata alla caviglia una grossa pietra. Prendendo l'ascensore, arrivo al piano superiore e chiedo ad una delle infermiere se potrebbe aiutarmi. Probabilmente sono in pessimo stato perché tutti mi guardano e parlano con gentilezza. Un dottore si avvicina a noi. «La signora Evans? Sono il dottor Green ha parlato con me al telefono qualche ora fa», lancia uno sguardo alla valigia come se non avesse bisogno della conferma. Annuisco anche se vorrei urlare al mondo che non sono la signora Evans ma una inutile e patetica ragazza a cui la vita sta dando del filo da torcere.
«Possiamo parlare prima? La prego, venga nel mio ufficio», apre una porta facendomi accomodare.
Questo è un brutto segno penso in fretta. Di solito si parla quando c'è qualcosa che non va o peggio. Inizio a trattenere il respiro in attesa del colpo di grazia. Mi sento come quando da piccola gli assistenti sociali vennero a darmi la notizia che i miei erano morti. Trattengo le lacrime e il groppo che ho in gola. Non posso farcela. Non questa volta.
L'infermiera mi offre un bicchiere d'acqua che accetto più per cortesia che per sete. Le mani continuano a tremare e rischio di rovesciare il liquido ovunque. «Dottore, la prego mi dica come sta», prendo parola anche se a fatica. La voce esce flebile dalle mie labbra, impersonale, priva di ogni forza. Ecco come mi ha ridotta. Ancora una volta sono a pezzi per lui. Mi sento alla deriva. Continuo a chiedermi cosa farò  senza di lui. Il pensiero mi fa rabbrividire.
«Sarò sincero con lei signora Evans. Non ho mai incontrato un agente così testardo in vita mia. Siamo riusciti a sistemare le lesioni interne ad arrestare l'emorragia interna e ad estrarre il proiettile. Fortunatamente non ha toccato organi vitali. Ha subito un trauma cranico. Ma nella risonanza magnetica non è stato evidenziato nulla di preoccupante per fortuna. Abbiamo dovuto indurre suo marito per alcune ora al coma farmacologico. Questo è servito per monitorare la situazione e per non permettergli di agitarsi.» Il dottore mi sorride calorosamente. Credo si sia accorto del mio sussulto seguito dal sospiro.
«È sveglio?», domando.
«Lo abbiamo svegliato un'ora fa. Respira autonomamente. È sveglio e vigile.» Sorride ancora.
«Quando posso vederlo?», trattengo a stento le lacrime e forse anche quello strano senso di gioia misto a sollievo. Non è morto. È solo un po' ammaccato ma è vivo.
«È sua moglie quindi ha la precedenza sugli altri parenti. La prego di seguirmi.»
«Avete avvisato i suoi genitori?»
«Il collega che si trova in ospedale con ferite lievi aveva il cellulare di suo marito. È stato lui a darci il suo numero dicendo che era importante che lei sapesse.»
Annuisco mentre seguo traballante il dottore tra i vari corridoi. Da sola mi perderei sicuramente in questo posto perché le stanze sono tante e i reparti sembrano enormi e senza fine o vie d'uscita. La gente continua ad andare e venire da più parti così come i medici che corrono come palline dentro un biliardo. Il dottore si ferma di fronte ad una porta. La numero 117. Non sono mai stata superstiziosa ma spero solo che lui sia davvero vigile e attento e che mi stia a sentire perché sono morta. Sono morta un milione di volte durante e dopo quella maledetta chiamata. Sono morta mentre superavo la distanza che ci ha tenuti separati per mesi. Sono anche arrabbiata perché non lo merito. Non merito tutto questo.
Il dottore apre la porta lasciandomi passare. La stanza è enorme e divisa in scompartimenti e tendine di un verde tenue. Le pareti sono asettiche e attorno c'è odore di disinfettante. Si sentono persone chiacchierare animatamente altre bisbigliare. Ci sono infermieri pronti a prestare soccorso a chi ne ha bisogno. Arriviamo in fondo. Non appena sento la sua voce scoppio inevitabilmente in lacrime. Mi blocco a pochi passi incapace di proseguire. Il dottor Green fa scorrere la tendina iniziando a parlare. Da questa distanza, vedo solo le sue spalle. «Signor Evans c'è una sorpresa per lei»
«Al diavolo le sorprese! Voglio andare via da questo posto maledetto. Quella infermiera mette le mani ovunque», brontola ad alta voce.
«Faccio solo il mio lavoro», risponde tranquilla l'infermiera.
Il dottor Green sbircia facendo cenno di avvicinarmi. Lascio cadere a terra tutto quanto e i miei piedi si muovo dapprima lenti. Aumento l'andatura e poi mi ritrovo a correre. Supero i due che stanno in piedi con un sorriso e senza riflettere mi getto in lacrime tra le braccia di Ethan. Lo sento tossicchiare e poi dopo un momento di esitazione le sue braccia avvolgono il mio corpo. «Non farlo mai più!», strillo tra i singhiozzi. «Non, farlo, mai, più!», picchio i palmi contro il suo petto. Ethan blocca i miei polsi costringendomi a fermarmi e a guardarlo. Tossicchia ancora facendo una smorfia di dolore. Passa un solo momento carico di tensione e sono di nuovo tra le sue braccia. Sento la tenda spostarsi, capisco che siamo rimasti soli. «Sono morta», tiro su con il naso. Ho difficoltà a respirare tanto sono agitata. Ho trattenuto troppo la mia preoccupazione e ora rischio di scoppiare. Avevo paura che fosse morto e che mi avesse abbandonata anche lui.
«Non volevo che ti preoccupassi piccola».
Il suono della sua voce basta a mandare in tilt il mio cervello. Tanti, milioni di brividi mi attraversano continuamente da capo a piedi. Una sensazione che avevo dimenticato. Una sensazione che avevo creduto fosse impossibile da riprovare. «Non volevi ma l'hai fatto. Non farlo mai più!», strillo ancora.
«Mi dispiace piccola. Non avrebbero dovuto chiamarti. Quel coglione di TJ deve avere preso il mio telefono mentre ero a terra circondato dai paramedici.» Scuote la testa e passa una mano sul viso.
«Ho avuto paura, una paura matta.»
«Lo so. Lo so che non ho fatto altro che spaventarti e mi dispiace. Avrei dovuto dirti tutto quanto quando ne ho avuto la possibilità. Sono stato un vero stronzo egoista e ora ne pagherò le conseguenze». I suoi occhi azzurri friggono ulteriormente il mio cervello. Non è possibile. Non può farmi ancora questo effetto. Non può avere tutto questo potere su di me. Prende il mio viso tra le mani. I suoi polpastrelli asciugano le mie lacrime mentre fissa ogni tratto del mio viso. Ogni singola riga di preoccupazione, di dolore. Riesce a leggermi dentro, lo sta facendo proprio ora. Chiudo gli occhi e torno tra le sue braccia mentre sua bocca si posa sulla mia testa. «Se potessi tornare indietro però rifarei tutto. Tutto quanto perché non saresti qui tra le mie braccia e io non mi sentirei così egoista e felice di rivederti e di tenerti stretta al petto».
«Cosa hai fatto?», provo a calmarmi seguendo i battiti del suo cuore. La sua pelle sotto il camice e calda. Tocco le fasciature con le dita e poi passo verso il suo viso ricoperto di graffi e lividi. Nonostante tutto è sempre bello da mozzare il fiato. Sono pronta per la sua storia. Sfinita ma pronta a sentire il suono della sua voce da vicino e non attraverso degli stupidì sogni.
«Devi essere stanca. Stenditi accanto a me», sussurra facendomi subito spazio sul lettino. Non oppongo resistenza. Con lui sarebbe inutile. Mi rannicchio cercando di non fargli male.
«Stavamo controllando i vari posti, setacciando quei vicoli stretti e lontani dal centro. Eravamo pronti a tornarcene a casa, un po' delusi forse anche sollevati. Di punto in bianco ci hanno segnalato movimenti strani in un posto abbastanza isolato. Eravamo solo io e TJ a pochi isolati così siamo andati a controllare. Abbiamo trovato i tizi che tentavamo di stanare da mesi con le mani nel sacco. Sono partiti dei colpi di pistola e uno è riuscito a colpirmi superando lo strato della tuta antiproiettile. Non ho battuto ciglio inizialmente e non mi sono accorto del sangue che continuava a sgorgare fino a quando TJ non mi ha chiesto come stavo e se ero tutto intero. Quando quei due uomini hanno preso l'auto per scappare, ci siamo gettati all'inseguimento. TJ ha iniziato a sparare sulle gomme per rallentarli e hanno riaperto il fuoco prima di causare un incidente. TJ si è fratturato il polso e gli hanno messo i punti. Quando sono uscito dalle lamiere ero stanco e sentivo freddo ma sono riuscito ad ammanettare quell'uomo. Quei maledetti paramedici mi hanno messo le mani addosso. Ho tentato di fermarli perché dovevo parlare con TJ, pensavo di morire ma alla fine ho perso i sensi e mi sono ritrovato in questo posto.» Sospira pensieroso. «Quando quell'uomo mi ha sparato, il mio primo pensiero non è stato quello per la mia vita ma è andato subito a te. Sapevo che ti saresti preoccupata e che avresti sofferto e non me lo sarei mai perdonato.» Fa un sorriso amaro e sfiora le mie guance ancora umide di pianto. Poggio il palmo sul suo per fermare la sua mano e trattenerla ancora sulla mia guancia. Il labbro trema e le lacrime sgorgano ancora.
«Emma io non...», sospira frustrato e stanco di combattere. «Ti ho fatto solo soffrire. Non ti merito. Non merito le tue attenzioni. Sei qui! Cazzo! Sono egoista, lo sarò sempre perché ti amo e perché spero che un giorno sarai di nuovo mia e solo mia.» Il suo viso si avvicina sempre di più al mio. Le sue labbra si posano sulla mia fronte, scendono sulla guancia e poi vicino la bocca. Chiudo gli occhi e lascio che i brividi scavino una voragine dentro il mio corpo. Nel mio stomaco si sono risvegliate le falene assassine. Sbattono le ali e cercano di librarsi nell'aria. «Lavorerai ancora?»
Fa subito di no con la testa e sussurra: «Ho chiuso con questa merda finalmente! E sul serio questa volta. Sono stanco di stare lontano dalla mia famiglia. Stanco di combattere battaglie non mie. Stanco di dividerti».
I suoi famigerati occhi azzurri brillano di una intensità folgorante. Mordo il labbro e mi rannicchio maggiormente tra le sue braccia. «Tornerai a casa?»
«Penso proprio di sì piccola», bacia ancora la mia testa e io penso che tra le sue braccia mi sento davvero al sicuro. Non è una frase scontata come ogni altra. Sono al sicuro, le sue braccia sono il mio posto sicuro. Le sue braccia sono il mio unico rifugio tranquillo, da sempre. Con Parker non è la stessa cosa. Capisco la differenza. Merda, Parker. Il pensiero mi fa rabbrividire. Ho lasciato Parker senza una spiegazione. Sarà maggiormente arrabbiato con me. Saprò gestire la sua rabbia e riuscirò a fare pace con lui.
«Hai freddo?»
«No, no». Bisbiglio voltandomi dall'altro lato.
«Allora perché stai tremando?», avvolge la mia vita tra le braccia costringendomi ad appoggiare la schiena contro il suo petto. Alcuni dei macchinari iniziano a suonare poi c'è silenzio.
«Perché ho paura che tutto questo sia solo uno dei miei brutti incubi», rispondo lentamente. La stanchezza inizia ad abbattersi su di me e sulle mie stanche ossa.
«Sono reale piccola. Sono qui, accanto a te».
Non riesco più a sentire altro. I miei occhi appesantiti si chiudono e mi perdo in un sonno senza sogni.

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