Il sabato mattino la via in cui abita Parker risuona del rumore dei clacson, dei bambini in fondo alla strada intenti a giocare nel piccolo parco giochi. Le madri intente a spettegolare con le loro amiche dopo una settimana pesante, mentre gli uomini si riuniscono in uno dei bar aperti per un caffè e la lettura del giornale. Fa tanto freddo. Le temperature si sono abbassate durante la notte ma ciò nonostante nessuno rinuncia a quei pochi minuti di libertà e allegria. Sono ancora scossa dalla nottataccia appena passata. Me ne sto rannicchiata di fronte alla vetrata ad osservare in silenzio mentre il vero rumore si trova dentro la mia testa. Le mie spalle vengono avvolte da un plaid assieme a due braccia. Il mento di Parker si posa sulla mia spalla mentre mi stringe da dietro contro il suo petto. Se ne avessi la forza eviterei questo contatto ma ora come ora, lascio che tutto scorra come sabbia in balia del vento.
«Non hai dormito», mi mette sotto il naso una tazza fumante di cioccolata.
Ringrazio assaggiando per riscaldarmi. Come al solito manca lo zucchero ma non è poi così male perché amo il fondente.
Si accorge della mia smorfia e gratta la tempia in imbarazzo. «Ho usato la busta fondente. So che ti piace così...», passa una bustina di zucchero davanti.
Scoppio a ridere. «Solo tu puoi preoccuparti così tanto per una cosa del genere. La cioccolata va bene così rilassati.» Mando giù un altro sorso. «Grazie»
Mi guarda perplesso. So che sta pensando che a breve avrò uno dei miei crolli nervosi ma si sbaglia, sono forte, non piangerò ancora. Ho solo avuto un momento di paura. Mi sono spaventata perché non provavo più la sensazione da mesi e mi ero abituata ad addormentarmi con un sorriso e senza la paranoia degli incubi. È strano come ci si abitui in fretta a qualcosa che ci fa stare bene.
Sospira e sorride a sua volta ma è un sorriso triste che non arriva al cuore perché si ferma su quelle labbra rosee morbide. Poggio la tazza sulla lastra di marmo e mi volto verso lui per guardarlo in faccia. «Non guardarmi così. Sto bene, davvero. Anzi dovrei essere già a casa.»
«Non vai da nessuna parte in questo momento. Finisci la cioccolata e smetti di prendere freddo davanti alla finestra. Ti beccherai un raffreddore.»
Inarco un sopracciglio. «Sei a torso nudo e parli per me? Dove sono finite le tue magliette? Nessuno te le ha lavate? Come mai sei a casa? Niente ufficio oggi?»
Alza gli occhi al cielo. «È sabato, sono il capo e posso anche rimanere a casa. In ufficio non c'è nessuno. E sono a torso nudo perché sto andando in palestra.»
Mi alzo, ripiego il plaid sistemandolo sul divano, raccolgo le mie cose e mi avvio verso la porta. Parker mi segue come un falco e corre subito sbarrandomi la strada. «Dove vai?»
«A casa?»
«Perché?»
«Perché se devo stare davanti ad una finestra mentre tu ti alleni, preferisco andare a casa mia e passare il tempo in altri modi.»
«Pensavo volessi allenarti con me.» Afferra le mie cose e va a sistemarle in camera sua. Lo seguo interdetta prima di essere afferrata per le gambe, sollevata sulla sua spalla e trascinata in palestra. Quando mi rimette a terra, mi lancia dei vestiti e dei guantoni. Riesco a prenderli a volo.
Passiamo un tempo indefinito lì dentro ad allenarci, a prendere a pugni il sacco, a correre l'una accanto all'altro sul tapiroulant o cyclette. Sudata e stanca mi siedo sul tappetino. Chiudo gli occhi e provo a recuperare il respiro. Parker si siede dietro e inizia a massaggiare le mie spalle.
«Ti stanno bene i miei boxer come pantaloncini», ridacchia tirando l'elastico. «Hai lasciato anche dei vestiti in casa quindi se ti va puoi fare la doccia e cambiarti.» Mi costringe a girarmi.
Blocco le sue mani sulla mia vita e lui stringe le mie dita attirando le mie braccia attorno al suo collo. «Mi picchi se ti bacio?»
«Si perché mi hai preso in giro per come mi stanno i tuoi boxer quindi non ci provare.»
Si avvicina per sfidarmi. Poso il palmo sulle sue labbra e lo allontano prima di rialzarmi. «Userò la tua doccia», mi richiudo nel suo sontuoso bagno e lascio sfuggire un grosso sospiro.
Avvolta nel morbido asciugamano bianco, esco dalla doccia. Di fronte allo specchio, passo una mano per togliere l'alone della condensa. Ho le guance rosse e gli occhi tristi. Da quanto tempo sto così male?
Dentro uno dei cassetti trovo la mia biancheria, pulita e ripiegata. La indosso e avvolta da un asciugamano asciutto esco dal bagno alla ricerca degli indumenti. Trovo una maglietta a maniche corte e la scarto in fretta, fa troppo freddo, e un paio di jeans stretti. Prendo a prestito una delle sue felpe dall'armadio. Quella nera che mi piace tanto. Mi sta larga ma tiene caldo.
Quando mi vede arrivare in soggiorno domanda: «È la mia felpa quella?»
Ha un asciugamano stretto in vita e si sta dirigendo nella sua camera. Faccio dietrofront e lo seguo.
«O questa o quella a maniche corte.» Mi stringo nelle spalle sedendomi sul letto.
Parker si rivestire tranquillo davanti a me. Infila una felpa grigia e si avvicina. Tiro indietro la schiena quando poggia i palmi sul materasso inchiodando il mio corpo sotto il suo. «Hai fame?», solleva le mie braccia facendomi alzare e finisco contro il suo petto. Mi manca un po' il fiato ma annuisco. Lo seguo in cucina e lo osservo mentre mette sul bancone metodicamente e ordinatamente gli ingredienti per una lasagna. Adora mangiare italiano.
Prendo la teglia e inizio a creare gli strati con la ricetta della nonna mentre Parker si occupa del secondo. Per quanto sia bravo in cucina, si occupa sempre dei secondi piatti. Sembra anche sereno e un po' divertito nel vedermi concentrata.
«Emma?»
«Uhm?» alzo lo sguardo e sporca il mio naso con un po' di sugo ridacchiando come un bambino. Lo spintono con il fianco e provo a pulirmi con un tovagliolino. Prendo un pizzico di peperoncino e glielo spalmo sulle labbra. Rido divertita quando arrossisce ed esce la lingua sventolandosi in cerca di un bicchiere d'acqua. «Sei una stronza», biascica.
Torno sulle mie lasagne e quando finisco l'ultimo strato le infilo nel forno già caldo. Inizio a togliere dal ripiano quello che non serve e lavo le posate sporche.
Parker si avvicina. «Assaggia e dimmi che te ne pare». Avvicina la forchetta con pezzo di carne. Assaggio e le mie papille si incendiano. Scoppia subito a ridere quando lo colpisco con lo strofinaccio. Bevo subito un bicchiere d'acqua e sospiro quando il bruciore si allevia dalla mia bocca. «È troppo piccante», metto il broncio.
Storce il labbro e si avvicina bloccandomi all'angolo. «Troppo? Sul serio? E le tue dita piene di peperoncino non lo erano?», sorride in un modo che non mi piace affatto. Parker è furbo, troppo. Inoltre mi conosce bene. Ha avuto modo di studiarmi e sta facendo leva su ogni mio sentimento e su ogni mia sensazione per farmi cedere. Per fortuna il timer del forno interrompe lo strano momento di vendetta e riuscendo a svincolarmi dalla sua presa, esco la lasagna dal forno e la metto a raffreddarsi un po'. In cucina si propaga subito l'odore buonissimo della pasta al forno.
Parker apparecchia la tavola in modo pratico e poi attende che io mi avvicini con la lasagna. Riempio i piatti e mi siedo. Gusto il primo sentendomi in fretta meglio. Il gusto della pasta mi riporta ad alcuni anni addietro quando la nonna preparava un pranzo in grande la domenica dopo la messa a cui si univano parecchi vicini.
«A cosa pensi?», domanda biascicando.
Pulisco gli angoli dal sugo. «La domenica nonna preparava spesso le lasagne e invitava i vicini alla nostra tavola. La casa si riempiva di persone, rumori, chiacchiere, risate, profumi. Ricordo che pretendeva di andare a messa, ci vestivamo per bene e poi tornate a casa ci mettevamo ai fornelli. Era un momento magico ai miei occhi perché potevo pranzare con qualcuno e non da sola come capitava quando magari nonna andava a lavoro e io non avevo compagnia.» Sorrido e continuo a mangiare.
«Io la domenica ero costretto ad andare dai nonni, c'era sempre una grigliata pronta, gente estranea e ricca pronta a lamentarsi degli affari. Una noia mortale! Non potevo nemmeno guardare le partite o giocare perché altrimenti mi sporcavo. Il cibo non era come questo. Non so i miei non hanno mai saputo cucinare o dedicarsi al cibo, come al contrario si dovrebbe.» Sembra perdersi un momento tra i ricordi poi domanda: «Cucinavi per il tuo ragazzo?»
«Quando le cose andavano bene si. Ci ritrovavamo spesso in casa da soli e ci divertivamo a cucinare facendo strani esperimenti. Il più delle volte però decidevamo di non tornare a casa.» Scuoto la testa con amarezza. Parker conosce parte del mio passato ma non nei dettagli.
«Dove andavate?»
Mando giù l'ultimo boccone. «Dipendeva da come ci girava. Marinavamo la scuola e andavamo al vecchio ponte oppure in un vecchio negozio di dischi abbandonato.»
«Cosa facevate?»
Prendo i piatti sporchi e vado a metterli dentro il lavello. Sto evitando questa domanda da anni. Il fatto è che in quella piccola casa, vedevo di tutto ma ero troppo cotta e spesso anche fatta per curarmene. Solo una volta o due me ne sono andata disgustata.
Parker mi segue e prendendo due piatti puliti porta a tavola il secondo. «Allora?»
Abbasso lo sguardo sul piatto e faccio un profondo respiro. Se parlo di questa cosa, mi guarderà in modo diverso ma ormai il danno è fatto. «Dentro quella casa, poteva succedere di tutto perché in molti la frequentavano. Inizialmente era il nostro rifugio. Aprivamo una birra e fumavamo ma dopo un paio di mesi, quel posto è diventato un ritrovo per tossici e gente di ogni tipo.» Scosto la sedia e mi alzo. Abbracciata guardo dalla vetrata la strada. Parker si avvicina e mi abbraccia da dietro. «È successo qualcosa di spiacevole?»
Annuisco con le lacrime agli occhi. «Io e una mia amica eravamo troppo fatte per fermarlo. Ancora oggi mi sento in colpa e una persona orribile per quello che è successo. Non ho avuto la forza di fermarlo. Non ho avuto modo di mandarlo via...», asciugo le lacrime. «Io e lui abbiamo marinato la scuola e ci siamo rinchiusi lì dentro. Abbiamo discusso perché erano giorni difficili per me. Mia nonna iniziava a stare male, dovevo trovare un lavoro perché lei non poteva più, dovevo studiare e reggere il crollo emotivo che rischiano di avere da un momento all'altro. Ci siamo spinti un paio di volte come eravamo soliti fare oltre ad urlarci contro. Poi lui ha acceso una canna e la discussione è finita lì. Finiva sempre lì. Ci siamo abbracciati, baciati e tutto è tornato normale. Iniziavo a sentire una certa stanchezza in quella brutta monotonia ma lo sballo mi aiutava a non pensare anche se per pochi minuti a quello che avrei dovuto affrontare.» Tiro su con il naso e girandomi nascondo il viso contro il suo petto. «Nel tardo pomeriggio sono arrivate tante persone. Una mia amica mi ha fatto provare una strana sigaretta dove c'era dentro qualcosa di diverso dal solito e sentivo il corpo pesante, non riuscivo a muovermi. Ridevamo, chiacchieravamo di cose assurde. I ragazzi si divertivano con strani giochi pericolosi. Poi sono arrivati loro. Una ragazza che mi aveva snobbata per gran parte della vita e un ragazzo che tutti evitavano si sono intromessi nella nostra festicciola. È scoppiato un litigio poi le risate. Ricordo lui a terra ubriaco incapace di parlare e lei intenta a sniffare qualcosa. È stata male, nessuno è riuscito ad alzarsi per aiutarla. Quando si è rialzata, un tizio l'ha seguita fuori e l'hanno ritrovata nuda e in coma da droghe il giorno dopo. Mentre la vedevo uscire dall'appartamento, la voce dentro la mia testa continuava a dirmi di alzarmi e fermarla ma non riuscivo a muovermi. Girava tutto.» Singhiozzo.
Parker sembra stordito e non sa proprio cosa dire. Inizio a vergognarmi del mio passato ma ero questo e non posso cambiarlo. Non posso cambiare le notti passate tra alcol e fumo. Non posso cambiare le volte in cui mi sono tagliata. Non posso cambiare i giorni in cui avrei voluto fuggire invece continuavo a rimanere inerme di fronte alla vita e agli errori.
«Cosa ne è stato di lei?»
«Si è risvegliata dopo il mio incidente ma non ha mai detto una parola di quella notte. Forse ha rimosso o ha deciso di non parlarne.»
«E tu? Cosa hai fatto dopo quella notte?»
«Ho smesso di bere e fumare. Ho deciso di ripulirmi perché avevo una vita davanti e meritavo di meglio.»
Torniamo a tavola e continuiamo a pranzare un po' assorti. Sospiro e provo a recuperare l'appetito. «So che ero una pessima persona ma ho fatto di tutto per cambiare. Ho fatto di tutto per crescere. A me sono mancati dei genitori e ho riposto la mia fiducia in una persona sbagliata che mi ha messo davanti delle vie di fuga. Ero senza regole ma quando arrivavo a casa e discutevo con nonna, una volta in camera, il dolore tornava e facevo male a me stessa pur di fermarlo. Non ci pensavo durante il giorno ma la notte era pericoloso.»
Posa la sua mano sulla mia stringendola. Ci alziamo e ci spostiamo verso il soggiorno dove sotto il coperchio della tortiera trovo una torta dall'aspetto delizioso. «Sei cresciuta bene. Non hai nulla da rimproverarti Emma.» Taglia due fette spesse di torta passandomene una. Solo lui può riuscire a mangiare tranquillamente di fronte ad una brutta verità. Forse sono gli anni di esperienza a combattere le battaglie altrui che lo spingono ad essere così.
«Avrei potuto evitare determinate situazioni.»
«Si ovvio ma adesso è passato e sei arrivata qua. La mia era pura curiosità mi dispiace se ti ha arrecato tristezza o dolore. Non era mia intenzione...»
«Devi sapere che non sono la persona dolce e sensibile che tu credi io sia. Sono stata una stronza insensibile per gran parte degli anni. Dopo l'incidente le cose sono cambiate e sono andata avanti. Mi sono come evoluta nella versione migliore di me perché non volevo, non voglio deludermi.»
Sfiora la mia guancia e sorride. «Sei stupenda Emma.»
Il suo sguardo rovente fa imporporare le mie guance. «Sei troppo buono con me.»
Avvicina il suo viso al mio «Perché ti amo e amo tutto di te.» Sfiora il mio naso con il suo, le mie guance poi l'orecchio. Inizio a sentire uno strano formicolio. Abbasso lo sguardo sulla sua bocca. Prendo con un dito un po' della glassa sulla torta spalmandola sul suo labbro. Passa la lingua e poi sorride ricambiando il favore creando sulla mia guancia due strisce alla Rambo. Ridacchio sentendomi imbrattata. Sa che lo odio e scoppia a ridere mentre tento di ripulirmi.
«Vuoi che ti riaccompagni a casa? Hai qualcosa da fare?»
Scuoto la testa e mi sistemo comoda sul divano. «Posso rimanere se per te va bene.»
Il suo sguardo si illumina. «Film? Ti va?»
«C'è la partita no?»
Inarca un sopracciglio e domanda: «Vuoi vedere la partita?»
«Tu si quindi accendi la tivù.»
Sorride come un bambino e mentre mi sistemo tra le sue braccia accende l'enorme schermo piatto e attendiamo l'inizio della partita.
«Hai ancora della cioccolata...», indica la mia guancia. Passa un dito sulla lingua e poi mi ripulisce.
Rido per il gesto buffo. Mi guarda interdetto poi scuote la testa con un sorriso e ritorna a fissare lo schermo.
Dopo la partita, mi rialzo stiracchiandomi. Fuori piove e mi intristisce parecchio il tempo così. Di fronte alla libreria scelgo uno dei libri presenti e mi siedo davanti alla vetrata. Leggo per un buon quarto d'ora.
«Giochiamo alla Wii? Ti straccio a tennis», strizza l'occhio.
Mi rialzo accettando subito la sfida. Ci divertiamo come matti con i vari giochi sportivi. Le sfide sono sempre più interessanti e lunghe e ben presto il mio istinto competitivo si presenta. Straccio Parker a tennis e poi a super Mario. Alzo le braccia e strillo "Vittoria!"
Passa una mano sul viso e ridendo si lascia ricadere sul divano. Prendo posto anch'io accanto a lui. Prima che possa rendermene conto sono abbracciata a lui.
«Tutto bene?», mormora contro il mio orecchio.
Faccio cenno di si e chiudo gli occhi con il viso contro il suo petto. Mi è mancato. Mi è mancato questo piccolo noi tranquillo che avevamo costruito lentamente.
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Unstoppable 3
RomanceQUESTO È IL TERZO LIBRO DI UNSTOPPABLE • Si consiglia la lettura della prima e seconda storia per capire questo terzo capitolo • TRAMA: È passato un mese da quando Emma è ritornata nella sua Vancouver, a casa. Il soggiorno a New York, non è andato...