19.| Poison and medicine.

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Ore 16.00

Il vento ulula violento destando in me una paura mai estinta, cerco d'istinto una via di fuga fra i cuscini bianchi e asfissianti che si richiudono su di me come a voler soffocare ogni sorta di pensiero che non sia dominato da due paia di occhi color caramello.

Se non avessi passato il pomeriggio a trastullarmi con mille dubbi ora potrei anche accogliere l'idea di fare qualcosa di produttivo con forza di volontà ma ricordi di sogni ripetuti come boomerang a cielo aperto squarciano ogni angolo di memoria.

Mi domando molte cose su quel mio sogno.

Ultimamente ad esempio sembrava essere sparito nel nulla, inghiottito dal nulla come qualcosa che non ti appartiene più e decide volontariamente di andarsene ma come cambiano i venti, le stagioni e le emozioni umane così, con la stessa repentinità stanotte il sogno ha bussato alla mia porta.

Realistico a pelle tanto da sentire sotto me ancora scricchiolii incerti di fronde spezzate, fra i capelli arruffati umidità che grava e nell'aria quelle grida che sembrano penetrare ossa, costole, carne viva.

Lui, lui chi è? Sento ancora la sua voce così confusa, così mia.

Scrollo via i pensieri decisa ad affrontare questa giornata diversamente dalle altre. C'è qualcosa di diverso, un senso di pace interiore: ora che tra me e Justin è tregua, ora che tutto sembra essersi sistemato tassello per tassello non posso che ritenermi fortunata e finalmente libera di essere me stessa.

Il diadema mi saluta scintillando sotto il sole incerto di una giornata uggiosa, la perturbazione è ancora su Miami come un fantasma che non se ne va carico di rancore e rabbia tuttavia la pioggia sembra aver fermato la sua corsa e al suo posto giocano fra il dorato della riva e le strutture alberghiere dal colore spento degli spifferi di vento solitari dalla voce grossa.

Tra un pensiero e l'altro mi rifugio nella mia amata doccia dove tra uno sbuffo e un canticchiare intonato comincio ad insaponarmi senza badare minimamente alla temperatura cocente dell'acqua: è come se dovessi parlare o dire qualcosa ma ci sia come l'ombra di un pensiero fisso che sia lì, immobile pronto a captare ogni mia mossa per poi seguirmi passo dopo passo e lasciare silenziosamente dietro me la scia di un presentimento, di un qualcosa scordato, dimenticato eppure fondamentale.

La mattinata trascorsa con Juss, il tempo ed il fatto che io abbia tanto da raccontare e poche persone con cui parlare mi rendono un fax simile umano della situazione metereologica fuori: se non avessi un po' di abbronzatura potrei perfettamente competere con Mercoledì Adams e la sua innata ebbrezza e gioia di vivere.

Il telefono lampeggia mentre litigo con il pantaloncino che su non vuole proprio andare, di sfuggita noto il nome di Justin sullo schermo ed un vuoto, seppure per un istante solo, mi invade: questa sensazione di smarrimento, come se io stessa cessassi di essere me, nel caos dell'attimo, mi pervade sempre quando sto con lui.

Fa parte del nostro gioco malato dimenticarci chi siamo e reinventarci tanto da non sapere più dove incomincia la maschera e finisce l'anima.

Che io abbia dato alle mie ombre un aspetto decente è oramai dato di fatto, lo capisco quando finisco per tracciare la riga di eyeliner con una perfezione che ancora mi stupisce: ora che esternamente sono pronta ad affrontare la giornata dovrei solo indurre un torneo di carte per tirare le somme con la mia coscienza.

Siccome nei momenti di confusione la solitudine diventa rammarico e una cattiva abitudine concordo che la presenza di Lena con tutti i suoi pro e i suoi abbondanti contro sia fondamentale.

La solidarietà femminile è un'invenzione degna di nota quindi che sia la più simpatica della terra o la più egocentrica, il che è più probabile, poco importa perché ho la necessità di parlare con qualcuno che di fatti, vicende abbia uno sguardo più neutrale e possa correggermi qualora stessi per imboccare strade ricche di giochi di illusioni e sale degli specchi.

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