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«Dov'è la dottoressa?» urlò all'uomo entrando nell'ospedale

«Le ho già detto che è andata via»

Jean gli arrivò di fronte facendo il giro dietro al bancone della reception «la sua auto è ancora qua» disse guardandolo negli occhi

«Ho già chiamato l'avvocato della società» rispose l'uomo con arroganza

Jean con una mano gli afferrò il collo spingendolo contro il muro «con il traffico che c'è ora ci metterà almeno un 'ora ad arrivare da Parigi» disse sorridendo «e in quest'ora tu e io ci divertiremo molto»

L'uomo iniziò a sudare «non puoi toccarmi» cercò di dire ma Jean lo interruppe

«Nessuno ci vedrà»

L'uomo sempre più spaventato indicò gli altri poliziotti «loro ti vedranno»

Jean sorrise stringendo sempre di più il collo dell'uomo «lasciateci soli» ordinò agli altri agenti che immediatamente andarono via «ora ti ripeto per l'ultima volta dov'è la dottoressa?» mentre l'uomo iniziava a tremare

***

Martinel firmò il modulo per il prelievo dal laboratorio di tecnologia di una cimice ad alto raggio e di un piccolissimo registratore. Li prelevò e li mise in tasca. La cimice era un microfono con una sensibilità molto elevata e che si attaccava facilmente, grazie ad un particolare adesivo, ad ogni tipologia di piano. Si avviò nuovamente dal prefetto chiedendo al suo segretario di essere ricevuto. Dopo pochi istanti il segretario lo fece accomodare.

«Ispettore Martinel che c'è ancora?» chiese l'uomo dietro la scrivania

Mathys si sedette sulla sedia di fronte «la macchina della dottoressa Fontaine è parcheggiata alla clinica» disse mettendo le mani sulla seduta della sedia per avvicinarla alla scrivania. Così facendo ci attaccò la cimice sotto in modo non visibile.

«Questo non vuol dire che sia lì e soprattutto che sia in pericolo» rispose il prefetto

Martinel si spazientì ulteriormente «Cristo santo cosa devo fare per avere quel fottuto mandato?»

Il procuratore si alzò in piedi contrariato «Ispettore le ho già detto che non bastano gli elementi che ha per entrare in una clinica che gode di appoggi e fama a livelli decisamente elevati»

«Così lei mi ferma le indagini» il viso di Martinel era carico di rabbia

«Mi porti altri elementi che confermino la sua ipotesi e io le firmerò il mandato» rispose l'uomo «Adam Bacol aveva un complice mi pare?» continuò il prefetto «mi porti la confessione del complice che conferma che portavano i corpi in quella clinica e io le firmo questo maledetto mandato» sogghignò

«Ci vorranno ore» disse Martinel «ammesso che lo troviamo»

«Se vuole entrare in quella clinica è l'unico modo» rispose.

Martinel si alzò «fanculo. Avrà quella confessione» disse uscendo dalla stanza con rabbia.

Il prefetto Gerard Delacroix si risedette sulla poltrona. Vide l'ispettore uscire e schiacciò l'interfono per parlare con il suo segretario «Luc non voglio essere disturbato per nessun motivo» disse con un tono che non lasciava adito a repliche. Poi prese dall'ultimo cassetto chiuso a chiave della scrivania un cellulare usa e getta. Era un cellulare non rintracciabile e non era il suo, che era invece posato in modo visibile accanto a dei fogli vicino al monitor del computer. Lo accese, c'era memorizzato un solo numero che compose. Dopo pochi squilli una voce rispose

«Pronto»

«Sono io. Le cose si stanno complicando»

«Che succede?»

«Martinel ha trovato la clinica, hai al massimo due ore per far sparire ogni cosa»

«Come cazzo faccio in solo due ore? Sono un medico io non un mago»

«Non so come farai, ma voglio che fai pulizia. Niente ci deve legare a quella clinica» affermò con decisione prima di agganciare.

Martinel sorrise sistemandosi l'auricolare all'orecchio. Aveva sentito e registrato tutto. Sapeva che quella registrazione non avrebbe potuta usarla in un tribunale, ma se fosse stata data in pasto alla stampa la carriera del prefetto Delacroix sarebbe finita all'istante. Il suo intuito aveva avuto ragione. Quel caso arrivava a vertici insospettabili della società. Sicuramente non c'erano implicati solo il prefetto e quel medico, ne era sicurissimo. Come era sicurissimo che avrebbe scoperchiato quel fottutissimo vaso e fatto scoppiare tutto. Ora aveva in mano la chiave per aprirlo quel vaso.

***

Sentiva dei rumori provenire da fuori, come fossero dei passi di uomini in corsa. Era ancora immersa nel buio immobilizzata su una sedia a combattere i mostri della sua infanzia. Eliane cercava di non farsi prendere dallo sconforto e dalla paura. Ormai era una donna adulta, era un medico, aveva dovuto affrontare situazioni difficili che le avevano fortificato il carattere e soprattutto il mostro era morto molti anni prima. Una brutta malattia se lo era portato via. In realtà per lei quella malattia non si era rivelata affatto brutta. Ma non lo disse mai. Sua madre non capì come mai lei non riuscì ad andare al funerale di suo padre, ma anche di questo non ne parlò mai. Mai. Mai con nessuno, nemmeno con lei che lo venerava. Non raccontò mai a nessuno cosa le faceva il mostro nel buio della sua cameretta. Dopo tutti quegli anni credeva di esserselo lasciato alle spalle, di essere riuscita a dimenticare. Ma la fotografia sulla scrivania di Jean l'aveva riportata indietro nel tempo. Il viso di quell'uomo era quasi identico a quello di suo padre. E lei aveva sentito il cuore salirle in gola e le gambe tremare. Anche vedendolo sdraiato nel lettino inerme la prima sensazione che la colpì fu di paura, come se potesse alzarsi e trascinarla ancora nel buio, nella sua tana. Ma quell'uomo non era suo padre, non era il suo mostro, ci somigliava soltanto. I rumori che aveva sentito dietro le sue spalle cessarono improvvisamente mettendole addosso ancora più ansia. Cosa stava succedendo? Nel silenzio più assoluto il cigolio della porta che si aprì alle sue spalle le lacerò il cuore. Una fitta fortissima che la riportò nella sua cameretta. Non vedeva niente solo il piccolo fascio di luce che entrava nello sgabuzzino. Sentì dei passi alle sue spalle, e il cuore nel petto voleva esplodere per il terrore. Sentiva la paura attanagliarle le viscere. Due mani afferrarono la sedia trascinandola all'indietro. Si rese conto di essere legata su una sedia a rotelle. Uscì dallo sgabuzzino ritrovandosi nel corridoio umido delle cantine. Una flebile luce al neon ne illuminava le pareti. Sbatté le palpebre più volte impaurita e tremante nel tentativo di abituarsi a quella luce improvvisa, e poi, mettendo a fuoco, lo vide. Vide il suo viso. Iniziò a piangere senza sosta mentre Jean le toglieva il bavaglio. Lui non disse una parola, aveva un'espressione nervosa e carica di rabbia repressa mentre la slegava. Si vedeva che stava lottando con se stesso per non cedere alle lacrime di gioia. Appena libera, lei si alzò e lui la prese tra le braccia stringendola. Aveva creduto di averla persa, aveva avuto paura di non riuscire ad arrivare in tempo. Sentiva un groppo in gola che gli impediva di parlare. Percepì solo la forza straziante delle braccia di Eliane che non volevano lasciarlo e la sua voce che gli sussurrava piangendo «grazie».

Non rispose consapevole che se lo avesse fatto insieme alle sue parole sarebbero uscite anche le sue lacrime. Non rispose, ma il cuore era colmo di felicità.

© Dan Ruben

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