7-Guilt feelings

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Passai circa due ore a conversare amabilmente con le ragazze, che avevamo tratto in salvo nelle ore precedenti e, dopo averle rassicurate un'ultima volta, uscii dalla stanza.

Sospirai silenziosamente, poggiando, per qualche istante, la testa sul muro, e non appena avvertii i battiti del mio cuore rallentare, m'incamminai verso le scale. Le salii e raggiunsi la vecchia porta, che consentiva l'accesso a uno dei luoghi preferiti della mia villa. La aprii e fui investita da un'ondata di vento che mi portò inconsciamente a rabbrividire. Alzai lo sguardo, osservai per qualche istante il sole che risplendeva nel cielo. Camminai sullo spiazzale del tetto fino ad arrivare al cornicione; sorrisi leggermente guardando verso il basso e mi accomodai, lasciando le gambe a penzoloni.

Rabbrividii ancora, quando il vento di febbraio colpì le mie spalle nude, tuttavia, dopo pochi istanti, avvertii un tessuto poggiarsi sul punto del mio corpo, lasciato scoperto dalla canotta che indossavo, regalandomi una piacevole sensazione di calore. Non mi girai neanche, avevo riconosciuto il profumo di dopobarba della persona che si era silenziosamente sistemata al mio fianco.

«Sono così scontata?» Chiesi senza voltarmi, preferendo mantenere lo sguardo sul cielo che ci faceva da sfondo.

«Ti ho vista uscire dalla camera delle ragazze e ho subito intuito dove fossi diretta.» Spiegò. «Lo sai che papà non voleva portarti alla mente quei brutti ricordi?» Domandò, lasciando un sospiro rumoroso.

«Però l'ha fatto Caleb, e io sono stanca di tutto questo, va bene? Lei non è qui, basta! Perché non lo capisce?» Quasi strillai. «Il passato non lo possiamo dimenticare, tuttavia sarebbe più facile far cicatrizzare il taglio, se non ci fosse qualcuno a reinserire costantemente il coltello nelle vecchie ferite. È una mia colpa ed è giusto che me la porti dietro, solo... bastano i miei sensi di colpa, non ho bisogno di altri pensieri.» Spostai, con le mani tremanti, una ciocca di capelli dietro l'orecchio e morsi con potenza il labbro, sentendo il sapore ferroso del sangue, mischiarsi alla mia saliva.

«Abbiamo già affrontato questo discorso, mi conosci da tanto per sapere quanto io odi ripetermi: non è stata colpa tua.» Mi ripeté duramente.

Sorrisi leggermente e mi voltai verso di lui, per poi alzarmi in piedi.

«Non mi va di parlarne, sei a conoscenza degli avvenimenti di quel giorno.» Passai una mano sui miei pantaloni, rimuovendo la polvere. «Ora, se non ti dispiace, vado in camera a riposare, queste due ore sono state dure.» Conclusi, per poi lasciarlo solo, ancora seduto lungo il bordo del cornicione.

Entrai nella mia stanza e mi buttai con poca grazia sul letto, facendo attenzione al braccio fasciato, che, alla fine, non mi provocava neanche tanto dolore. Serrai le palpebre, e ascoltai le parole di mio fratello ripetersi fastidiosamente nella mia mente. Cercai di reprimere quella fitta che mi colpiva il cuore tutte le volte che pensavo a lei e, dopo essermi coperta con il lenzuolo, mi lasciai avvolgere dal buio.

***

Continuavo a sentire fin troppe grida; il cuore batteva forte nel mio petto, pensavo che, da un momento all'altro, avrebbe potuto cedere. Gli strilli aumentavano, come anche la gente che correva ovunque.

Mi guardai intorno spaventata, ma non appena sentii la sua mano stringere la mia, mi calmai un po'.

«Dobbiamo andare via da qui.» Asserì fermamente, per poi iniziare a camminare e seguire la folla accalcata. Si avvertivano dei colpi di pistola, ma noi continuavamo ad avanzare senza voltarci indietro.

Seguimmo l'ammasso di gente che correva verso l'uscita, fermandoci giusto quando c'era troppa fila, da non permetterci di camminare.

«Che cosa sta succedendo?» Chiesi a uno degli ospiti, tirando la manica della sua elegante giacca.

M'ignorò e continuò a correre. Nell'aria si disperse nuovamente quel forte rumore, che io associavo agli spari, ma non feci in tempo a capire da dove venisse, che fui violentemente sbattuta contro il suolo.

Alzai lo sguardo stordita, eppure ritornai in me quando vidi il suo corpo cadere.

Urlai colta dalla disperazione e mi alzai di corsa arrivandole vicino. La scossi ripetutamente, sperando che aprisse i suoi occhioni azzurri e mi rivelasse che, in realtà, quello era solo uno stupido scherzo, ma lei rimase immobile, con le labbra serrate e le palpebre chiuse.

Si sentì un altro sparo e poi qualcosa colpirmi. Chiusi gli occhi sperando che tutto quello finisse.

Come in un déjàvu la terra cedette e io precipitai nel vuoto. Cercai un appoggio, tuttavia era troppo tardi, non avevo possibilità di salvezza.

Mi svegliai di soprassalto, gridando. Mi guardai intorno spaventata e mi rilassai non appena mi accorsi di essere in camera mia. Passai le mani tra i capelli, umidi a causa del sudore, e cercai di regolare i battiti del cuore, facendo dei respiri lenti e regolari.

Non appena fui certa di potermi sostenere in posizione eretta, senza svenire, mi alzai dal letto ed entrai nel bagno, abbandonando i vestiti grondanti di sudore e infilandomi nel box doccia.

Lasciai che l'acqua scivolasse sulla pelle, eliminando, in modo metaforico, le cicatrici che mi portavo dentro da quel giorno.

Finii di lavarmi e tornai in camera, presi un jeans e una felpa di Caleb, e li indossai velocemente.

Lasciai il viso al naturale e, dopo aver preso il mio giubbotto, uscii dalla stanza, arrivando in salotto, in cui erano presenti i miei fratelli, che parlottavano allegramente tra di loro.

«Esco.» Li avvisai, avvicinandomi alla porta d'ingresso.

«Alexandra, qualche ora fa ti hanno sparato! Dove stai andando?» Feci finta di nulla e, non appena presi le chiavi della moto, mi chiusi la porta alle spalle.

Montai sulla sella della mia Kawasaki e lasciai la villa. Percorsi le strade di New York, assumendo una velocità moderata, fermandomi, quando ne avevo voglia, a osservare qualche famigliola felice, che passeggiava in quella città piena di mostri, di gente che non si sarebbe fatta nessun problema a strappargli via la loro gioia e spensieratezza.

Guidai per circa mezz'ora e, quando il braccio iniziò a farmi male, raggiunsi il solito bivio, svoltando a destra. Parcheggiai la moto nel piccolo spiazzale e mi sedetti a terra, stendendomi, in seguito, sull'erba umida. Guardai il cielo e osservai le stelle che c'erano quella sera. Le stelle.

Le stelle sono milioni di miliardi, però, ognuna di loro, ha qualcosa che la differenzia dalle altre. C'è quella un po' meno luminosa, quella più piccola, quella che forma una particolare costellazione e così via; tuttavia, noi uomini, quando ci soffermiamo a osservarle, ci concentriamo solo su quella più grande, la Stella Polare, s'intende. Che sia la legge del minore e del maggiore a spingerci a guardare quella? O forse è perché siamo troppo pigri per osservare e capire le altre?

Forse è per questo che non ci capiamo neanche tra di noi, dovremmo spingerci oltre le apparenze, guardare anche la persona che mai avremmo pensato di riuscire a notare; probabilmente fu anche a causa della mia pigrizia che quella sera, non mi accorsi di niente. Pensai.

Dovetti ritornare in me quando un rumore, proveniente da lì vicino, si estese nell'aria.

Sfilai la pistola dai pantaloni e mi alzai in piedi puntandola, verso il buio che mi circondava. Dei passi si fecero sempre più vicini e il cuore iniziò a martellarmi nel petto. Passarono pochi istanti e una figura sbucò fuori dai cespugli. Lo guardai per qualche secondo, fino a quando non spalancai gli occhi, colta dallo stupore.

«Che diavolo ci fai tu qui?» Domandai attirando i suoi occhi cupi su di me.

Con te non ho pauraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora