10-I won't let you win

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Finii di passarmi il rossetto scuro sulle labbra e rimossi l'elastico nero, lasciando che i miei lunghi e scuri capelli potessero cadere sulle spalle. Indossai il giubbotto e mi affrettai a raggiungere il salone, mentre consultavo il mio cellulare.

"Fammi trovare la macchina, solito posto."

Digitai rapidamente nella chat con Luke, meccanico di fiducia, oltre che grande amico.

"Con piacere, chica."

Sorrisi leggermente nel leggere lo sciocco e ricorrente nomignolo che mi aveva affibbiato.

Riposi il telefono nella pochette e raggiunsi silenziosamente il garage, tuttavia mi accorsi, ben presto, della figura slanciata e possente di mio padre, che mi osservava con le braccia incrociate al petto.

Sbuffando, interruppi il mio passo.

«Dove vai?» Chiese sospettoso, controllando l'ora sul suo costoso e pregiato orologio.

«Che t'importa?» Borbottai scocciata.

«Mi importa perché sono il tuo fottuto padre e perché sei perfettamente a conoscenza degli ordini: quando uscite da questa casa voglio essere avvertito.» Usò un tono duro e m'impedii di rispondergli con delle urla, sopprimendo la mia dannata impulsività.

«Sto andando a fare un giro, posso andare o devo continuare a subirmi la tua inutile ramanzina sulle regole?» Chiesi ironicamente, appoggiandomi alla macchina.

«In piena notte?» Mi fissò con un sopracciglio alzato, in attesa della mia risposta.

«Proprio considerato l'orario, tu non dovresti essere nel mondo dei sogni?» Mi beffai di lui e alzai gli occhi al cielo, annoiata dalle sue domande.

«Alexandra!» Mi ammonì rapido. «Ti rifarò la domanda, dove stai andando?»

«Gareggio stasera.» Feci spallucce. «Contento, ora?» Digrignai i denti, serrando la mascella.

«Vai da sola?»

Sospirai alla sua richiesta. «No, Ian e Caleb sono già lì.» Affermai, aprendo lo sportello della Porsche nera.

«Fa attenzione.» Annuii in risposta. Tentai di chiudere la portiera, però, la sua voce roca mi fermò ancora. «Un'ultima cosa... ti voglio bene.» Pronunciò serio.

Mi chiusi la portiera alle spalle, senza dargli una risposta, e lui andò via. Sospirai leggermente e poggiai, per qualche secondo, la testa sul volante.

«Ti voglio bene anch'io.» Sussurrai piano, anche se sapevo che non mi avrebbe potuto ascoltare.

Mi sollevai e, poco dopo, partii, dirigendomi verso il luogo che avevano scelto per svolgere la corsa clandestina.

Guidai per circa dieci minuti e, successivamente, raggiunsi la vecchia fabbrica in rovina. Man mano che mi avvicinavo al retro, sentii le urla della gente e la forte musica, che rimbombava nell'aria, mossa da un leggero venticello. Ciascuno dei presenti era pronto per assistere all'ultima gara della serata: quella in cui avrei presenziato anch'io.

Parcheggiai e scesi dalla vettura, con un ghigno perfido stampato sul viso. Puntai lo sguardo nella folla, alla ricerca del viso abbronzato di Luke e, quando finalmente riuscii a scorgerlo, mi apprestai a raggiungerlo. Stava parlando con una ragazza piuttosto minuta, ma carina, con lunghi capelli rossi e occhi verdi; l'avevo vista qualche volta nei dintorni e ogni volta sembrava del tutto fuori luogo, in mezzo a tutti noi. Il mio migliore amico le stava sorridendo, mentre lei continuava a parlare con una punta di imbarazzo nella voce.

Luke era un ragazzo di origini spagnole; aveva la pelle sempre abbronzata, che gli conferiva un aspetto mozzafiato: quello del classico straniero, che ti colpisce fin da subito con un semplice sorriso. I capelli scuri e ricci erano tenuti in modo disordinato sulla testa, gli occhi, invece, erano di un verde accesso ed erano contornati da delle folte ciglia scure. Indossava una felpa con il cappuccio tirato su, che lasciava intravedere i suoi ricci, mentre le gambe toniche erano fasciate da dei jeans strappati. Aveva, senza dubbio, bellezza da vendere, tuttavia, lo consideravo da sempre un grande amico, niente di più; pertanto, quando avevo un problema, sapevo di poter contare sul suo aiuto.

Con te non ho pauraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora