39-Do it!

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Viaggiavamo nella sua macchina in assoluto silenzio, poiché io ero troppo scossa per aprire una conversazione e lui sembrava pensieroso. Non sapevo cosa passasse per la sua testa e decisi di lasciar correre.

Dopo avergli rivelato quella parte della mia vita che preferivo porre da parte, si era dimostrato molto disponibile e comprensivo, pertanto, quando aveva domandato il mio parere sul rientro alla casa al mare, gli avevo detto che sentivo la necessità di tornare a New York, cosicché potessi ascoltare le verità che mio padre mi aveva nascosto, senza permettergli di omettere i particolari. Sapevo che parlare con Caleb sarebbe stato inutile; nonostante il bene che provava nei miei confronti e il suo carattere simile al mio, nutriva molto rispetto nei confronti di quell'uomo e credevo che, in certi momenti, lo temesse. Adam Morrison, infatti, non era solo nostro padre ma anche il nostro capo.

Ero io l'unica a disubbidire senza temere le conseguenze, in ogni occasione.

Dylan, quando gli avevo detto che sarei voluta tornare nella Grande Mela, aveva annuito e si era offerto di accompagnarmi. Dunque, in quel momento eravamo in auto, diretti a New York senza che nessuno lo sapesse, o almeno era quello di cui ero convinta.

Eravamo in viaggio già da un'ora e la stanchezza che avevo accumulato diventava pressante: avrei voluto chiudere gli occhi e non svegliarmi più.

«Devo fermarmi per fare il pieno.» M'informò Dylan, voltando il capo per guardarmi.

Annuii distrattamente e tornai a guardare fuori dal finestrino.

Dopo pochi istanti fermò la macchina, che gli aveva consegnato un ragazzo della zona, probabilmente uno dei suoi uomini, e scese dal veicolo.

Quando chiuse lo sportello, mi coprii il viso con le mani e chiusi gli occhi, poi alzai la testa, lanciando uno sguardo verso il piccolo bar dall'insegna luccicante. I miei occhi s'illuminarono insieme alla scritta e, presto, mi trovai fuori dalla macchina.

L'alcool che avevo ingerito sembrava essere svanito, tuttavia i postumi della sbornia scuotevano il mio corpo stanco, infatti, quando scesi dall'auto, un giramento di testa mi costrinse ad aggrapparmi alla portiera.

«Stai bene?» Mi domandò il bruno, raggiungendomi.

«Alla grande.» Sussurrai più a me stessa, prendendo a camminare verso la tavola calda.

«Buongiorno. Vorrei un caffè, grazie.» Mi guardai intorno, alla ricerca dei servizi igienici, che scorsi sulla destra. «Arrivo subito, usufruisco della toilette.» Dissi al signore barbuto, posto dietro al bancone.

Una volta in bagno, aprii l'acqua del lavandino, mi bagnai le mani e dopo il viso. Un senso di freschezza mi avvolse e sospirai leggermente.

Chiusi il rubinetto, tuttavia, non riuscii a fare altro poiché qualcuno mi tappò la bocca con una mano; tentai la tecnica che mi avevano insegnato, ma il mio aggressore fu troppo veloce e avvertii ma un pizzicotto al braccio, a seguito del quale iniziai a vedere sfocato. La mia forza diminuì gradualmente e sentii le gambe cedere, eppure non caddi perché fui sollevata a mo' di sposa dalla persona che mi aveva aggredita. Provai a combattere contro il sonno, tuttavia i miei tentativi furono vani e mi addormentai, non prima di sentire un semplice scusa, sussurrato da una voce che mi sembrò estranea.

***

Aprii gli occhi, però fui costretta a richiuderli a causa della luce fioca che illuminava la stanza. Sbattei ripetutamente le palpebre e riuscii a mettere a fuoco l'ambiente circostante dopo qualche secondo. Voltai la testa, guardandomi attorno, spaesata, provai a muovermi e solo allora mi accorsi delle catene che circondavano i miei polsi e le mie caviglie, impedendomi i movimenti. Mi ricordai improvvisamente del mio rapimento e la rabbia sorpassò tutto.

Con te non ho pauraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora