24- Silence

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Silenzio.

Come accoglienza, dopo la notte passata fuori di casa, trovai il silenzio. Non si trattava di uno di quei silenzi carichi di tranquillità, bensì era inquietante e sospetto.

Non vidi nessuna guardia di mio padre appostata agli angoli della casa e, pensandoci bene, ricordai di non aver visto nessuno nemmeno davanti al cancello, cosa alquanto strana.

Villa Morrison sembrava essere deserta. Anche le cameriere non si erano presentate per salutarmi e raccogliere il mio soprabito.

Mi preoccupai all'istante e aprii, attenta a non produrre alcun rumore, il secondo cassetto del piccolo mobile che si trovava lungo il corridoio dell'ingresso, da cui, scoprendo il doppio fondo, estrassi una pistola.

La caricai, nonostante il sottile schiocco che produsse, e la avvicinai al busto, pronta a ogni evenienza.

Con l'adrenalina che scorreva nelle vene, iniziai a farmi largo nella casa, ispezionandone ogni angolo. M'imposi di dimenticare la paura e l'ansia che, lentamente, mi stavano divorando. Ero preoccupata per incolumità dei miei famigliari, temevo di rivivere la stessa scena che aveva creato uno squarcio inguaribile nel mio animo.

Il cuore galoppava nel petto e le tempie pulsavano senza ritegno, mentre mi muovevo agilmente tra le stanze del piano inferiore. Avvertii una goccia di sudore scivolare lungo la fronte; aprii la porta delle cucine, che produsse un lieve cigolio, mi affacciai all'interno, stringendo la pistola tra le dita affusolate e lunghe. Il cuoco e le tre cameriere erano stesi a terra, riversi in una pozza di sangue, con un foro all'altezza della fronte.

Quella visione mi provocò un balzo al cuore, tuttavia dovetti reprimere tutto, giacché gli intrusi potevano ancora essere tra i muri della casa, non mi potevo permettere di abbassare la guardia o distrarmi.

Mi rimisi in marcia, silenziosamente, e arrivai in soggiorno, dove un altro massacro aveva avuto luogo. Gli uomini di mio padre, legati e imbavagliati, con diversi segni sul corpo mezzo nudo, erano ammassati sul pavimento sporco di sangue.

Fu in quell'istante che l'ansia prese a crescere e, appiattendomi contro il muro macchiato da schizzi rossi, composi il numero di Ian. Risultava spento, dunque, telefonai al suo gemello: Caleb.

«Alexandra?» La voce roca di mio fratello mi raggiunse ben presto e tirai un sospiro di sollievo.

«Caleb, per l'amor di Dio, dove cazzo sei?» Mi sforzai di parlare piano, nonostante avessi voglia di urlare dalla gioia.

«Risolvo conti in sospeso con piccoli bastardi, tu dove sei?» Mi domandò.

«Papà dove si trova?» Parlai allarmata, ignorando la sua domanda e correndo verso il suo ufficio, senza curarmi di non farmi sentire.

«È fuori con Ralf, dovevano discutere di cose importante e sai bene quanto preferisca farlo al di fuori delle mura di casa, quindi credo si siano recati in uno dei loro luoghi sicuri.» Spiegò e io mi ritrovai nuovamente a sospirare. «Ora posso sapere cos'è successo? Pensavo fossi con Kayla!»

«Abbiamo un cazzo di problema, correte a casa.» Parlai in fretta, distratta da alcuni rumori provenienti dal giardino.

«Spiegati meglio, Alexandra, mi sto preoccupando.» Non feci in tempo a rispondere, che sentii una macchina partire sgommando. Chiusi di scatto la telefonata e corsi rapidamente in giardino.

Spalancai la porta dell'ingresso e, impugnando il mitra che avevo recuperato dall'ufficio di mio padre, iniziai a sparare contro gli uomini a bordo del pick-up. Ricambiarono il fuoco, pertanto, fui costretta a nascondermi dietro a una delle colonne presenti sul portico. Quando smisero, costretti dall'assenza dei proiettili, mi sporsi e cominciai a sparare, tentando di colpire le ruote dell'auto che, ormai, si trovava poco oltre i cancelli di villa Morrison.

Con te non ho pauraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora